La versione originale di questo articolo è stata pubblicata sul sito di Greenpeace Italia
Immaginate un mondo in cui le compagnie petrolifere si ergono a paladine dell’ecologia, pronte a insegnare il vero significato di responsabilità ambientale. Potrebbe sembrare una fiaba, ma in qualche modo in questi ultimi anni le più grandi multinazionali dell’oil&gas hanno fatto diventare realtà questa assurda prospettiva. Vi raccontiamo come, facendo un passo indietro di vent’anni esatti.
Nel 2004, racconta il giornalista Mark Kaufman su Mashable, la multinazionale britannica BP – attiva nel settore dell’oil&gas – promosse uno strumento di comunicazione che ha (purtroppo) avuto nel tempo uno straordinario successo. L’azienda, spiega Kaufman nella sua inchiesta, presentò in quell’anno “il suo ‘calcolatore dell’impronta di carbonio’, in modo che si potesse valutare come la normale vita quotidiana – andare al lavoro, comprare cibo e viaggiare – sia in gran parte responsabile per riscaldamento del pianeta”.
Dopo aver implementato per decenni quello che l’organizzazione Union of Concerned Scientists ha chiamato “il protocollo di disinformazione”, alcune grandi compagnie dei combustibili fossili a inizio millennio hanno dunque deciso di mettere in atto questa strategia, definita dal giornalista Stefano Vergine e dal docente universitario Marco Grasso, nel loro libro “Tutte le bugie dei petrolieri”, come un vero e proprio “scaricabarile”.
Questa tattica, spiegano i due autori, “consiste nell’inquadrare la questione dei cambiamenti climatici come un tema di responsabilità individuale, dettato dalle scelte di consumo dei singoli […]. Questa mossa è volta a impedire di comprendere che la crisi climatica è un problema strutturale in gran parte guidato dall’industria petrolifera e dal suo ostinato negazionismo, dalla disinformazione e dalle pressioni sulla politica. In questo modo, le compagnie petrolifere sono riuscite a nascondere la loro responsabilità per i cambiamenti climatici e a presentarsi come coloro che, semplicemente, soddisfano una domanda esistente”.
Un espediente narrativo molto sottile, che però di recente ha subito un’evoluzione ancora più colpevolizzante (e dunque autoassolutoria, dal punto di vista delle aziende fossili) nei confronti di singole cittadine e singoli cittadini. Negli ultimi mesi sono infatti menzionabili ben tre diversi esempi di grandi aziende dell’oil&gas – Exxon, Shell ed ENI – che, per difendersi, tentano di scaricare praticamente tutta la colpa della crisi climatica su chi acquista i loro prodotti, ovvero il consumatore finale.
In particolare, Shell ed ENI stanno utilizzando questa tesi in tribunale per ribattere alle accuse che, rispettivamente nei Paesi Bassi e in Italia, vengono mosse contro di loro dalle organizzazioni ambientaliste e da cittadine e cittadini che hanno deciso di denunciarle per il loro impatto sul clima del pianeta, affinché siano obbligate da una sentenza giudiziaria a rivedere i loro piani industriali per rispettare l’Accordo sul clima di Parigi.
Un esempio? Ecco cosa scrive ENI nelle sue memorie difensive presentate nell’ambito della causa intentata nei suoi confronti da Greenpeace Italia, ReCommon e dodici cittadini e cittadine: “L’attività produttiva di ENI, così come quella di tutte le altre compagnie petrolifere, risponde alle esigenze della domanda di energia. L’attività che ha il principale impatto sotto il profilo emissivo è dunque quella della collettività che acquista e utilizza i prodotti energetici per gli usi più diversi”.
Peccato che i fatti smentiscano ancora una volta questa assurda narrativa dei giganti fossili. Come spiega un recentissimo articolo del Guardian, a differenza di quanto sostenuto dalle tre compagnie dell’oil&gas menzionate in precedenza, l’80% delle emissioni globali rilasciate in atmosfera dal 2016 a oggi, dunque dalla firma dell’Accordo di Parigi in poi, è riconducibile a sole 57 aziende, attive in settori come la produzione del cemento e lo sfruttamento di carbone, gas o petrolio. Tra questo ristretto gruppo di aziende, rientrano anche ExxonMobil, Shell ed ENI. La compagnia italiana, in particolare, è tra le prime dieci compagnie private (al 9° posto) ad aver emesso più gas climalteranti dal 2016 a oggi, nonché la 33esima a livello globale tra le realtà più impattanti di sempre sul clima del pianeta.
Quando queste aziende finiscono sotto la lente d’ingrandimento della società civile, contrattaccano accusando consumatori e consumatrici di essere i veri colpevoli del caos climatico che stiamo vivendo. Avete letto bene, dovremmo essere noi a dover portare sulle nostre spalle il peso della crisi climatica mentre loro ci osservano da lontano con aria di eroica superiorità, ottenuta grazie a decenni di emissioni devastanti per il pianeta.
Oltre al danno la beffa, dunque: mentre continuano a incassare miliardi sulla nostra pelle, queste aziende cercano di farci sentire in colpa per i disastri ambientali che loro stesse hanno causato. È ora di dire basta e far sì che multinazionali come ENI paghino per i danni che hanno inferto al nostro pianeta e alle nostre vite. Anche per questa Giusta Causa, abbiamo deciso di portare la compagnia italiana più inquinante al mondo in tribunale.