di Antonio Tricarico – uscito su Il Manifesto del 12 giugno 2012
Dopo 16 anni di lavoro incessante all’interno del movimento alter-globalista, si è chiusa l’esperienza della Campagna per la riforma della Banca mondiale, che ha passato il testimone alla nuova associazione Re:Common, presentata a Roma giovedì scorso.
Negli ultimi 16 anni il mondo è profondamente cambiato, nella sua mappa geopolitica e nelle nuove relazioni tra poteri economici emergenti e vecchie potenze. La crisi iniziata nel 2007 negli Usa, e a oggi non ancora risolta, ha ulteriormente accelerato questo cambiamento. Il liberismo è in profonda difficoltà e ostaggio delle sue stesse contraddizioni, ma gli Stati continuano a sostenerlo con forza, nel Nord come nelle economia emergenti, diventando così un tutt’uno con gli interessi dei mercati globali.
Allo stesso tempo è anche profondamente mutato il movimento che negli ultimi venti anni si è opposto con forza alla globalizzazione liberista in nome della solidarietà con i popoli e le comunità oppresse. Dopo le pagine dolorose del G8 di Genova nel 2001, nel Sud del mondo i movimenti sociali si sono molto rafforzati, trovando nuovo slancio e proposta politica, a fronte di un indebolimento nei paesi del Nord e di una difficile resistenza. Così oggi nasce il bisogno di nuove e più forti solidarietà per rilanciare un’agenda di trasformazione sociale.
Nel 1992, la Conferenza di Rio sull’ambiente apriva una stagione di vertici mondiali all’indomani del crollo della cortina di ferro. La speranza che finalmente l’urgenza dello sviluppo dei paesi impoveriti e delle crisi ecologiche fossero affrontate dalla comunità internazionale si è subito infranta contro l’onda devastante del liberismo, estesasi su scala mondiale con la spinta propulsiva di quella che poi oggi sì è manifestata in tutta la sua perversità come la finanziarizzazione del capitalismo. In quel contesto nasceva la Crbm, sulla scia dell’esperienza della campagna Nord-Sud lanciata da Alex Langer. L’ambizione era quella di contenere, in rete con i nuovi movimenti globali, il potere delle istituzioni finanziarie internazionali esecutori dell’agenda neoliberista su scala planetaria, in primis la Banca mondiale. Presto il lavoro si allargò ad altri attori finanziari pubblici e quindi all’Organizzazione mondiale del commercio, sconfitta nel 2003 alla storica ministeriale di Cancun. Ma già allora i mercati privati di capitale prendeva il sopravvento sull’economia mondiale, forzandola nell’indebitamento cronico e l’esoteria finanziaria pur di dare una risposta alla crisi di accumulazione iniziata negli Usa alla fine degli anni ’60 e riemersa costantemente nelle ultime decadi.
Oggi ci avviamo lentamente verso la fine del ciclo capitalista a stelle e strisce, alimentato dall’economia del petrolio. Ma la fase di finanziarizzazione si preannuncia ancora lunga, cosicché ci aspetta una lunga transizione prima della partenza di un nuovo ciclo dell’impresa capitalistica ancora ignoto nelle sue forme. Come 20 anni fa, alla vigilia del nuovo vertice delle Nazioni Unite che si terrà a Rio a giugno, in tanti si aspettano che l’economia prossima ventura sarà verde e compatibile con i limiti ambientali che ci impone il Pianeta. Ma oggi non può esistere una vera economia verde se è anti-democratica e non rimette in discussione la logica spietata di accumulazione sostenuta da chi oggi possiede ricchezze stratosferiche e proprio a tal fine continua a devastare la Terra. L’economia verde non può essere solo un mezzo per uscire dall’attuale grave crisi economica, senza cambiare strutturalmente le cause che a essa ci hanno condotto.
Per questo nasce Re:Common, per lavorare dentro i movimenti sociali e plasmare la lunga transizione che si spera un giorno ci porti a un’autentica economia verde, soprattutto giusta. È centrale opporsi sistematicamente alla finanziarizzazione della natura – dall’acqua, al clima, passando agli ecosistemi – per sottrarre ai mercati finanziari le risorse naturali. Ma allo stesso tempo è centrale aprire uno spazio politico per riappropriarsi della finanza pubblica, come uno strumento per sottrarre sovranità ai mercati e restituirla ai cittadini e alle comunità.
Riaffermare l’interesse pubblico, però, vorrà dire andare anche oltre le strutture statuali esistenti, mettendo al centro il paradigma dei beni comuni – o commons, all’inglese – come principio politico organizzativo di nuove società. Non si tratterà solamente di condividere con nuove forme di proprietà collettiva i mezzi e le risorse da cui trae sostentamento una comunità. Sarà necessario porre al centro dell’azione politica la limitazione sistematica del potere, di chiunque sugli altri, all’interno delle comunità e nei confronti di queste, così come all’interno delle nuove forme organizzative che vorranno essere i nuovi attori del cambiamento. Una sfida enorme che oggi raccogliamo con slancio.