ReCommon incontra il collettivo della GKN di Campi Bisenzio

All’apparenza la vicenda della GKN di Campi Bisenzio, in Toscana, è quella di un’ordinaria speculazione finanziaria, con un fondo, Melrose, che si compra la società, la smembra e manda per strada centinaia di operai. GKN è un’azienda che realizza componenti di automotive ed è tutt’altro che in crisi profonda al momento dell’arrivo del fondo. Anche questo è un elemento ricorrente in situazioni analoghe.

Ma quella della GKN di Campi Bisenzio è anche, e soprattutto, una storia di straordinaria resistenza, che per fortuna ha avuto anche una giusta eco sui media italiani. Il giorno del licenziamento, nell’estate del 2021, è infatti cominciata l’occupazione dell’impianto da parte dei lavoratori, riuniti nel Collettivo di fabbrica. Occupazione che va avanti senza interruzione. Per capirne di più delle ragioni e della visione del Collettivo lo abbiamo incontrato e posto ai suoi esponenti alcune domande. Ne è uscita fuori una lunga intervista, che parla del loro impegno a tutto tondo, toccando temi di fondamentale importanza come la transizione ecologica e il cambio di modello produttivo.   

Foto ©Michele Lapini
  1. Quali sono gli ultimi aggiornamenti sulla vostra lotta?

Il 18 ottobre si è riaperta la procedura di licenziamento e, ad oggi, sarà definitiva il primo gennaio 2024. L’abbiamo chiamata l’ora x: quella in cui lo stabilimento viene “liberato” dai dipendenti, cessa di essere una realtà industriale, sindacale, una comunità operaia e diventa un puro fabbricato, da svuotare e immettere sul mercato immobiliare. Una potenziale speculazione immobiliare che segue quella finanziaria: un doppio crimine sociale in una zona che è appena stata colpita dall’alluvione, provocata dai cambiamenti climatici e da speculazioni edilizie.

  1. Perché quella della GKN è una lotta sistemica e quanto è replicabile in altri contesti, anche dissimili dalla realtà industriale in cui opera la stessa azienda?

Non so se la lotta GKN è antisistemica. So che il sistema è antilotta GKN. Noi il 9 luglio 2021 eravamo semplicemente alla catena di montaggio a produrre. E da lì ci hanno tolto licenziandoci. Più che disquisire su quanto noi siamo anti-capitalisti, bisognerebbe parlare di quanto il capitalismo è anti-noi.

Esiste un mondo che ha chiuso questo stabilimento: sovrapproduzione, finanziarizzazione dell’economia, disimpegno di Stellantis, mancanza di intervento statale, complicità della politica. Noi non abbiamo fatto altro che resistere. Per resistere un giorno o un mese, devi tenere duro. Per resistere due anni e mezzo devi avere un progetto. Sono le circostanze che ci hanno spinto a elaborare un progetto industriale. E per farlo non potevamo che partire da chi ha difeso la fabbrica: gli operai, il movimento climatico, le reti di solidarietà e convergenza. Dalla difesa nasce il rilancio. Non è una vicenda necessariamente replicabile, ma sicuramente esemplare. Il nostro non è un piano di per sé antisistemico: la singola fabbrica non può sfuggire al mercato. Eppure il nostro esempio dà fastidio a un sistema.

  1. Da quali esempi avete tratto ispirazione per condurre la vostra lotta?

Abbiamo studiato ogni vertenza prima di noi, del recente o remoto passato. Apollon (Roma 1969), Innse, ecc., e alla fine abbiamo tratto indicazioni dal percorso di Rimaflow a Milano. E in generale abbiamo dovuto prendere atto di essere nel mezzo di un caso “argentino”: quando i tempi della resistenza di una singola fabbrica non coincidono con quelli dell’ascesa generale di un movimento di massa, assistiamo al fenomeno dell’autorecupero della fabbrica. E quindi abbiamo dovuto fare mente locale sul caso delle fabbriche recuperate argentine. Con ognuno dei casi citati, ci sono analogie e differenze. Una differenza su tutte: noi non stiamo recuperando la fabbrica con la sua produzione originale. Abbiamo dovuto – e voluto per alcuni aspetti – elaborare un piano di riconversione ecologica.

  1. Quale può essere il contributo della GKN all’accidentato percorso della transizione ambientale, che tanti vorrebbero essere in atto, ma che in realtà, al netto del greenwashing, tarda a partire?

Esistono tecnologie più verdi di altre. Ma non esiste nessuna tecnologia verde implementabile su larga scala senza un piano sociale di cambiamento dell’economia: radicale, urgente. E non esiste piano sociale senza controllo sociale sulla produzione. Quello che abbiamo appreso è che la capacità della classe di resistere nella difesa dei propri diritti sociali a un certo punto produce anche una capacità della classe di conoscere, controllare, indirizzare le scelte su chi, come, che cosa produrre. Nei suoi picchi storici il movimento sindacale produce democrazia radicale, consiliare. La democrazia radicale produce capacità di entrare nel merito dei processi produttivi. Senza tale contributo, la transizione ecologica non si dà, o non è controllabile. Che poi è la stessa cosa.

  1.  GKN potrebbe essere anche un primo passo nella giusta direzione del cambio di modello? Quale puo’ essere vostro punto di forza per innestare un circolo virtuoso in proposito?

Ripeto che non siamo un modello. La singola fabbrica non può ergersi a modello. Siamo però un esempio. E questo esempio domani potrebbe esprimersi in comunicati, volantini, studi ma anche con prodotti tangibili. Cargobike prodotte sotto controllo operaio a disposizione di un delivery differente nel tessuto urbano. Pannelli fotovoltaici al servizio di comunità energetiche che “democratizzino” l’energia e la sua distribuzione. Enti locali o istituti pubblici che partecipano alla cooperativa e in cambio ricevono pannelli da usare per creare fondi con cui abbattere le morosità incolpevoli delle comunità circostanti. Gli esempi sono tanti, potenzialmente contagiosi. Ripeto: rifiutiamo ogni tipo di idealizzazione di questo processo. Non stiamo teorizzando nulla di nuovo o l’oasi felice nel mercato. Stiamo dicendo che è una grande occasione per dire: si può, si potrebbe. Persa questa occasione, cosa diremo alla prossima azienda in crisi?

  1. Secondo il vostro collettivo di fabbrica per quale motivo non riuscite ad accedere ai fondi pubblici per le aziende recuperate? Che cosa vi aspettate in futuro in merito?

Gli assunti dell’attuale politica fanno sì che il pubblico non interviene senza privato. Ma solo a servizio del privato e delle sue perdite, spesso. Il privato non interviene con una visione pubblica.

Il prodotto che vogliamo fare non esiste. Per esistere ha bisogno di un investimento. Il privato non investe se il prodotto non esiste. Il prodotto non esiste senza l’investimento sulla linea industriale per avere il prodotto. Il mercato scarica sulle novità verdi tutta la propria inerzia e il proprio conservatorismo. Per questo la transizione produttiva necessita dell’intervento di un soggetto che abbia il bene pubblico tra i propri obiettivi.

Siamo in questo circolo vizioso e ci siamo attrezzati per provare a romperlo, con ogni mezzo a nostra disposizione. Ma anche quando riuscissimo a romperlo completamente, rimane il nodo dello stabilimento. Dal punto di vista finanziario stiamo parlando di bazzecole per i grandi gruppi pubblici e privati. Con una cifra che oscilla tra i 10 e 50 milioni di euro si chiuderebbe la partita e daremmo a questo Paese un polo delle rinnovabili e della mobilità leggera. Il gettito fiscale positivo prodotto sarebbe di gran lunga superiore. L’Italia avrebbe transizione, entrate fiscali e posti di lavoro.

La verità è che qua, oltre a una partita di soldi, si gioca un’altra partita: quella della prerogativa sociale. Una multinazionale deve avere il diritto di chiudere, aprire, smembrare, cementificare, scappare, rivendere, umiliare un territorio. Riaprire GKN, per di più con una reindustrializzazione, è lesa maestà a tale prerogativa.

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