Processo Eni Opl245, si preannuncia una tempesta autunnale

Aula bunker del carcere di San Vittore

[di Luca Manes] pubblicato su Valori.it

Trascorsa la pausa estiva, riaprono le danze del processo sul caso OPL245, che vede alla sbarra Eni, Shell e 13 tra top manager e intermediari per la presunta tangente miliardaria pagata per l’acquisizione di una ricca licenza petrolifera in Nigeria. Dopo quattro udienze spalmate fra marzo e luglio e incentrate sulle questioni preliminari, siamo finalmente giunti alla fase dibattimentale. O quasi, perché anche in un’uggiosa mattinata milanese quasi quattro ore di processo servono solo per esaurire gli ultimi “aspetti tecnici”.

Dimenticate Perry Mason

Insomma, l’esatto opposto dell’idea di procedimento penale che vi siete fatti guardando decine di film americani. Niente interrogatori serrati, colpi di scena o giudici e avvocati infervorati, bensì lunghi elenchi di prove documentali, noiosi aspetti burocratici e tante dichiarazioni di rito. Il tutto in un luogo che invece ricorda ben altre vicende, molto più drammatiche: l’aula bunker del carcere di San Vittore, quella dei processi alla mafia e ai brigatisti rossi, scelta in mancanza di spazi disponibili al Palazzo di Giustizia.

In realtà anche in questa occasione qualche passaggio rilevante c’è stato. Tanto per cominciare, la corte ha rigettato la richiesta di estromissione presentata da Shell e dai suoi manager dall’azione di responsabilità civile. Forse un esito scontato, visto che Eni nemmeno aveva provato a sfilarsi. Quindi l’iter per l’eventuale richiesta di danni da parte del governo nigeriano va avanti, al momento senza intoppi.

La paura di Shell per le prove

Fa parte delle schermaglie processuali, invece, l’opposizione degli avvocati della difesa, a partire da quello del manager della Shell, Peter Robinson, alla presentazione di alcune prove: nello specifico le dichiarazioni di uno degli intermedari, l’ex diplomatico russo Ednan Agaev, durante un processo svoltosi all’estero e lo stesso esito di una causa civile svoltasi a Londra che ha di fatto poi innescato l’intero caso di corruzione internazionale.

Ci riferiamo al procedimento intentato dall’intermediario nigeriano Emeka Obi nei confronti di Dan Etete, ex ministro del petrolio del Paese africano, nonché reale proprietario della Malabu, la società che ha ceduto i diritti del giacimento OPL 245 all’Eni e alla Shell.

Obi chiedeva il pagamento, mai ricevuto, di una parcella di 215 milioni di dollari. Era il 2013, i giudici inglesi diedero ragione a Obi, riducendo l’importo totale. Poco dopo la somma fu congelata su richiesta dal pm di Milano, Fabio De Pasquale, che aveva iniziato a indagare sul caso. È legittimo affermare che forse, senza lo scontro tra Obi ed Etete, non avremmo mai sentito parlare di OPL 245.

Nel prossimo round, voce ai finanzieri

Dal 26 settembre, ascolteremo invece dalla viva voce degli ufficiali di finanza che hanno condotto l’indagine la ricostruzione dei fatti, in particolari dei vorticosi giri di centinaia di milioni di dollari in giro per il mondo, tra conti correnti “compiacenti” e trolley infarciti di banconote. Si farà quindi sul serio, ed era proprio ora. A vivacizzare ulteriormente un processo fin qui un po’ sonnacchioso è anche la notizia sull’imminente – è solo questione di giorni – decisione sul segmento del procedimento riguardante proprio Obi e l’altro “faccendiere” Gianluca Di Nardo, che hanno deciso di affidarsi al rito abbreviato, a porte chiuse, e per i quali la pubblica accusa ha richiesto una condanna a cinque anni di reclusione.

Con almeno otto udienze piene di testimonianze entro la fine di ottobre si preannuncia davvero un autunno caldo…

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