Piano Mattei, una beffa per l’Africa

Venerdì 3 novembre, il Consiglio dei ministri si è riunito per deliberare su diversi provvedimenti. Tra questi, anche il decreto legge con le disposizioni relative alla governance del cosiddetto “Piano Mattei per l’Africa”. Le poche frasi di contenuto e le disposizioni amministrative riportate nel decreto aprono scenari preoccupanti, finora sottaciuti.

Il Piano Mattei arriva da lontano. Nella primavera 2022, all’indomani dell’invasione russa dell’Ucraina e con l’esasperarsi della crisi energetica già in corso, l’allora ministro degli Esteri Luigi Di Maio e l’amministratore delegato di ENI Claudio Descalzi si recarono a fare spesa di gas in Qatar, ma anche in Algeria, Repubblica del Congo, Angola e Mozambico. Paesi africani con i piedi d’argilla anche a causa dell’ingombrante presenza dei colossi fossili delle nostre latitudini.

La premier Meloni in Mozambico, foto governo.it, licenza CC-BY-NC-SA 3.0 IT

Con l’avvicendarsi del governo Draghi con quello Meloni, l’ossessione per le fossili rimane e gli si affianca quella per il “contrasto all’immigrazione irregolare”. Giorgia Meloni nomina per la prima volta il Piano nell’ottobre del 2022, nel suo discorso per chiedere la fiducia alla Camera. A gennaio 2023, durante un viaggio ufficiale in Algeria, la Premier sostiene che “il nostro modello di cooperazione non è predatorio […] un modello di cooperazione su base paritaria per trasformare le tante crisi anche in possibili occasioni”. Proprio su questo punto, il ministro degli Esteri Antonio Tajani ha rafforzato il messaggio svariate volte: L’Italia guarderà sempre al continente africano con una visione non europea, ma africana”. Insomma, il Piano Mattei sembra entrare di diritto nel gotha degli approcci decoloniali. È curioso come questa “visione africana” ricordi un’esternazione di qualche anno fa: “Siamo una società africana, […]. Siamo lì da 60 anni per il rispetto che abbiamo per quelle persone”. Parole di Claudio Descalzi, che, dopo una lunga carriera in ENI iniziata proprio in Repubblica del Congo – non a caso, nell’ottobre di quest’anno ha accompagnato Meloni nei suoi viaggi proprio in quel Paese e in Mozambico.

Peccato che il testo del decreto legge certifichi che il Piano si occuperà della “promozione della sicurezza nazionale in tutte le sue dimensioni, inclusa quella economica, energetica, climatica, alimentare e del contrasto ai flussi migratori irregolari”. L’impronta politica del governo è chiara fin dall’inizio, alla faccia della tanto sbandierata cooperazione su base paritaria: la matrice è securitaria, e ogni aspetto del Piano sarà da intendersi in quest’ottica.

Un messaggio reiterato anche dall’assenza di qualsiasi riferimento formale alla partecipazione di paesi, istituzioni pubbliche o enti privati africani – soprattutto quelli appartenenti alla società civile – alla governance del Piano.

Della cabina di regia, oltre alla squadra di governo, faranno parte anche le istituzioni di finanza pubblica italiane, a partire da SACE: l’agenzia di credito all’esportazione grazie alla quale l’Italia è il primo finanziatore europeo di progetti fossili all’estero, il sesto a livello globale. Nel ruolino di marcia di SACE si possono annoverare progetti che poco hanno a che fare con la “sicurezza energetica” dell’Italia, come il progetto Coral South FLNG di ENI in Mozambico o la raffineria Talara di Petroperú: il primo ha permesso l’export verso l’Italia di quote minoritarie di gas naturale liquefatto, mentre il secondo serve solamente ad aumentare la produzione di petrolio in Perù, greggio che molto difficilmente arriverà in Italia. Se non per l’Italia, sicurezza energetica per chi allora? Forse per le multinazionali del fossile? Comunque, con buona pace della “sicurezza climatica”.

Nella cabina di regia ci saranno anche “rappresentanti di imprese a partecipazione pubblica”. Immaginiamo la scena: il Piano Mattei favorirà gli investimenti in Africa di quelle stesse società che potrebbero indirizzarlo, a partire da ENI e SNAM. Il cane a sei zampe è infatti la seconda multinazionale energetica per attività in Africa, e se parliamo di investimenti in nuove attività estrattive tra il 2020 e il 2022, solo l’algerina Sonatrach ha saputo fare di meglio. Dall’Algeria parte invece il gasdotto TTPC, che ENI gestisce insieme a SNAM e da cui dovrebbe partire il fantomatico corridoio sud dell’idrogeno tanto caro alle due società di San Donato Milanese. 

Questi “rappresentanti” dovrebbero essere individuati con un nuovo decreto entro i primi giorni di gennaio. Il monitoraggio civile di questo processo è più che mai dirimente, alla luce di potenziali conflitti di interesse. Un problema che si presenta anche con la struttura di missione del Piano, di cui potrà fare parte “personale di società pubbliche controllate o partecipate dalle amministrazioni centrali dello Stato in base a rapporto regolato mediante convenzioni”. Forse convenzioni come quella tra la Farnesina ed ENI, che permette al gigante petrolifero di stanziare membri del suo personale presso il ministero per un periodo illimitato di tempo?
Alla luce di questi esempi, ci sentiamo di apportare qualche modifica alle parole pronunciate dalla Premier ad Algeri: trasformiamo le nostre crisi – e quelle “loro” che abbiamo spesso alimentato – in opportunità per i “nostri campioni” industriali.

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