Negoziati sul clima, carestie e repressione globale

Proteste ai negoziati sul clima a Bangkok, foto Antonio Tricarico
Proteste ai negoziati sul clima a Bangkok, foto Antonio Tricarico

[di Antonio Tricarico]

BANGKOK – Si sta chiudendo in queste ore a Bangkok una delle sessioni intermedie degli annosi negoziati sul clima, sempre più in stallo a causa del perenne scontro tra governi ricchi (oggi in crisi) e realtà in via di sviluppo. Gli attivisti di numerosi movimenti asiatici hanno occupato le trafficate strade di Bangkok per chiedere tagli reali e profondi delle emissioni, soprattutto da parte dei paesi industrializzati.

Anche perché oramai i cambiamenti climatici uccidono. La carestia che quest’estate ha colpito pesantemente i raccolti dagli Usa all’India sta già facendo sentire i propri effetti sul prezzo dei prodotti agricoli. Prodotti che molti paesi impoveriti devono ormai importare, dopo che anni di aggiustamenti strutturali e misure di austerità imposte da Banca mondiale e Fmi hanno distrutto la loro sicurezza alimentare.

Ma il clima uccide anche in altri modi. Gli attivisti asiatici per la giustizia climatica sono sempre più oggetto di una feroce repressione da parte dei loro governi. Siamo arrivati al paradosso che i piccoli contadini e le comunità locali che vivono nelle zone forestali della Thailandia sono perseguitati e citati in giudizio perché danneggerebbero l’ambiente e il clima. Incredibile? Non tanto, dal momento che quelle stesse foreste servono per ospitare progetti di offset, ossia devono essere salvaguardate con il solo fine di conteggiare il carbonio che assorbono e generare permessi di emissione per le imprese e i governi che invece vogliono continuare a inquinare.

E non parliamo di un caso isolato. In Indonesia si sta assistendo a un’esplosione di violenza – addirittura con il consenso delle grandi Ong conservazioniste – contro le comunità locali che non vogliono essere allontanate dalle foreste dove vivono, perché queste ultime devono essere utilizzate per progetti di compensazione delle emissioni secondo il controverso programma Redd, partorito nell’ambito dei negoziati internazionali sul clima. Un altro meccanismo di mercato senza senso che permetterà ai paesi industrializzati di evitare tagli veri delle emissioni a casa propria e alle compagnie private di beneficiare di permessi di inquinamento a danno delle comunità locali. Quelle stesse comunità cui sono sottratti i loro mezzi di sostentamento con una dislocazione forzata senza adeguate compensazioni, e su cui in ogni caso ricadono gli impatti dei cambiamenti climatici.

Con la scusa della crisi economica, gli stati non hanno alcuna intenzione di agire subito nella lotta contro i cambiamenti climatici e impiegano invece la forza nel reprimere il dissenso di chi pretende giustizia climatica e uno stop all’estrazione dei combustibili fossili. Allo stesso tempo si registra un forte impegno per costruire nuovi mercati globali che mercificano anche l’atmosfera e le foreste pur di garantire profitti ai soliti noti e di lasciare intatte il modello di sviluppo e la dominazione globale tramite un continuo accaparramento di risorse a danno dei più poveri.

Lo stesso governo italiano, che a Bangkok per bocca dell’Unione Europea ha reso noto che non ci saranno impegni maggiori in termini di riduzioni – si rimane al 20 per cento – e di risorse per pagare il debito climatico storico verso il Sud del mondo, in nome dell’indipendenza energetica ora parla di iniziare a trivellare anche dalle nostre parti. Petrolio e gas che saranno bruciati aggravando la crisi climatica. A quando la repressione contro i movimenti e le comunità italiane che si oppongono? La storia della TAV ci insegna che il passo è breve.

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