L’ipocrisia della finanza sulla crisi climatica

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Oggi tornano in piazza i Fridays for Future con uno sciopero nazionale su tutto il territorio italiano. Le sfide rimangono tante, in primis quella di rimettere i cambiamenti climatici in cima all’agenda politica in un contesto ancora segnato dall’emergenza covid-19.

Negli ultimi mesi, la finanza internazionale si è fatta distrarre meno dei governi dalla pandemia ed ha dato maggiore attenzione al tema, prendendo nuovi impegni anche a livello italiano. Mark Carney, ex governatore della Banca d’Inghilterra, ed ora inviato speciale dell’Onu su Azione Climatica e Finanza, ha ricordato qualche giorno fa anche al pubblico italiano come la finanza sia una leva centrale per accelerare la transizione fuori dai combustibili fossili e per l’adattamento ai cambiamenti climatici. La finanza ne sarà sempre più impattata, sia perché alcuni settori dell’economia reale patiranno problemi economici seri, sia perché il rischio climatico toglierà valore agli investimenti nei combustibili fossili che ancora oggi dominano il portfolio delle istituzioni finanziarie.

La corsa al gas dell’Artico

Un mese fa, UniCredit ha avuto il coraggio di dichiarare la sua uscita definitiva da progetti ed imprese del carbone entro il 2028, come richiedono le Nazioni Unite. Ad un applauso però corrisponde una stroncatura: come riportato due giorni fa dal Wall Street Journal, UniCredit è tra i principali finanziatori delle società coinvolte in attività estrattive nell’Artico, un paradosso climatico non da poco. UniCredit ha adottato a novembre scorso una prima politica per limitare i finanziamenti a petrolio e gas “non convenzionali”, ma guarda caso manca un’esclusione per i progetti onshore proprio nell’Artico.

Intesa SanPaolo, l’altro “campione” bancario italiano, non è da meno. Sul carbone ha adottato a maggio scorso una prima politica alquanto debole che permette alla banca di finanziare ancora imprese carbonifere, quale la Fortum/Uniper, che costruisce ancora nuovi impianti in Europa. Intesa sta inoltre valutando il finanziamento di Arctic Lng, un progetto devastante nell’Artico Siberiano, guidato dalla Russa Novatek. In passato, la banca torinese aveva finanziato anche Yamal Lng, sempre di Novatek.

A completare il tridente della finanza tricolore, Generali assicurazioni ha fatto passi avanti nel ridurre i finanziamenti al carbone, ma non molla i clienti “neri” in Polonia e Repubblica Ceca, in primis PGE e CEZ. Sarebbe il caso però che il Leone di Trieste iniziasse a guardare a tutti i combustibili fossili e prendesse impegni anche per limitare investimenti ed assicurazioni per petrolio e gas.

Se la finanza privata si muove, seppur in maniera inadeguata e contraddittoria, quella pubblica in Italia è ferma al palo, anzi se guardiamo al loro portfolio si può dire che abbia un atteggiamento quasi “negazionista” dell’emergenza climatica. Una questione allarmante, visto che istituzioni finanziarie pubbliche, quali la Cassa Depositi e Prestiti – Cdp, la banca pubblica per gli investimenti italiana che gestisce centinaia di miliardi del risparmio postale – e la Sace – l’assicuratore pubblico italiano – stanno già giocando un ruolo chiave nei piani di ripresa e resilienza approntati dal governo negli ultimi mesi.

Scende in campo la Sace

Nell’ultimo anno la Sace si è scatenata nella promozione di nuovi progetti faraonici per lo sviluppo del gas: 950 milioni di dollari per il secondo mega progetto di sviluppo del gas liquefatto in Mozambico e 750 milioni per il settimo treno del mega impianto di liquefazione di Bonny Island in Nigeria. Inoltre sta considerando di assicurare per ben un miliardo la sciagurata avventura delle imprese italiane coinvolte in Arctic LNG-2, i cui finanziamenti passeranno in larga parte da Intesa Sanpaolo. È notizia di qualche giorno fa che la Cdp è anch’essa clamorosamente coinvolta nel finanziamento del Mozambique LNG development, un progetto che sta esasperando la sicurezza nel nord del Paese, spostando comunità intere e devastando l’ambiente locale. Senza poi parlare dell’impatto del progetto sul clima. Con 4 miliardi di euro di garanzie date all’Oil&Gas nel solo 2019, il governo a fine settembre ha “benedetto” la Sace, affermando che gestirà le garanzie per i progetti del Green New Deal italiano, quasi un ossimoro.

Quando sono criticate per la loro ossessione per il finanziamento delle fonti fossili, le istituzioni finanziarie, pubbliche o private che siano, si difendono, sostenendo che i prestiti e gli investimenti consentono loro di interagire con le società fossili per spingerle a cambiare nel lungo termine. Fioccano oramai le definizioni usate per obiettivi lontani, quanto vaghi, di riduzione delle emissioni fino al 2050: net-zero emissions (anche se solo parziali e non fino a zero davvero, come nel caso di Eni al 2050), green deal (vedi Intesa che afferma che investirà 50 miliardi nel verde) e soprattutto il mantra di essere allineati con gli obiettivi dell’Accordo di Parigi sul clima del 2015, Paris-aligned per gli anglofoni. Specchietti per le allodole: e se si fanno i conti nei vari modelli ed impegni adottati da banche, investitori, e società, in realtà emerge che contribuiranno eccome a superare la fatidica soglia di 1,5 gradi di surriscaldamento del pianeta, oltre la quale non si sa che succederà al clima. Oggi nel giorno dello sciopero climatico Re:Common presenta in Italia i Principi per le Istituzioni finanziarie allineate con l’Accordo di Parigi sul clima: Impatto climatico, combustibili fossili e deforestazione, un posizionamento internazionale della società civile coordinato da Rainforest Action Network ed a cui Re:Common ha attivamente contribuito. Questa la roadmap dettagliata per la finanza per avviare finalmente il proprio sciopero per smettere di finanziare i progetti e le imprese fossili e proteggere il clima.


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