Le “bombe climatiche” di Intesa Sanpaolo

È il mix di finanziamenti e investimenti nell’industria dei combustibili fossili a fare di Intesa Sanpaolo la banca nemica del clima n.1 in Italia. Con il recente finanziamento al blocco petrolifero Stabroek, oggi c’è una ragione ulteriore per definirla tale: sono sei le bombe climatiche finanziate dal principale gruppo bancario italiano, per un ammontare di 3,2 miliardi di dollari. Le emissioni di CO2 aggiuntiva nell’atmosfera derivanti dall’operatività di questi progetti di petrolio e gas sono pari a 69 miliardi di tonnellate: 8,7 volte maggiori delle emissioni prodotte dalla Cina.

Per “bomba climatica” si intendono quei progetti di carbone, petrolio o gas con un potenziale di emissione di oltre un miliardo di tonnellate di CO2, cioè con ripercussioni ambientali e sociali irreversibili. Sono 425 le bombe climatiche divenute operative dopo l’entrata in vigore dell’Accordo di Parigi sul clima o ancora in fase di realizzazione. I paesi che ne ospitano il maggior numero sono Cina, Stati Uniti, Federazione russa e Arabia Saudita.

L’ultimo di questi devastanti progetti finanziati da Intesa Sanpaolo è il blocco petrolifero Stabroek di ExxonMobil, che si trova all’interno del più ampio giacimento di Turbot, a circa 150 chilometri dalle coste della Guyana e a una profondità di 1800 metri. Il prestito della prima banca italiana risale a luglio 2022, per un ammontare di 120 milioni di dollari, necessari all’acquisto dell’unità galleggiante di produzione e stoccaggio di petrolio One Guyana, commissionata da ExxonMobil alla società olandese SBM Offshore. Il finanziamento complessivo del natante ammonta a 1,75 miliardi di dollari, il più alto di sempre per un’operazione di questo genere.

La maggioranza della popolazione guyanese vive sulla costa, per lo più a un’altezza di due metri sotto il livello del mare. I chilometri di argini già costruiti possono poco per contrastare l’innalzamento delle acque – soprattutto in caso di piogge torrenziali, come avvenuto a gennaio 2017. In quell’occasione, 208 membri della comunità indigena Arawak di Shell Beach sono stati costretti ad abbandonare per sempre il proprio territorio, facendone de facto rifugiati climatici. Il Paese, che affaccia sul Mar dei Caraibi, non ha alcuna esperienza nella produzione di petrolio e ha poca o nessuna capacità di rispondere a sue eventuali fuoriuscite, dal momento che non dispone di imbarcazioni, personale formato e attrezzature necessarie anche solo a monitorare le operazioni di trivellazione in corso, proprio come quelle di Exxon con Stabroek.

Quando si parla di bombe climatiche, il ruolino di marcia del gruppo di Corso Inghilterra è impressionante. In principio sono stati i progetti di gas naturale liquefatto (GNL) nell’Artico russo: Yamal LNG e Arctic LNG-2, entrambi di Novatek. Quando si parla di dipendenza italiana dal gas russo, ciò che manca è proprio l’assunzione pubblica di responsabilità da parte di Intesa, alla luce del suo sostegno agli idrocarburi di Mosca. Petrolio e gas che rappresentano il bancomat dello sforzo bellico russo in Ucraina. Il prestito per Arctic LNG-2 sembra al momento congelato, ma l’amministratore delegato di Novatek, Leonid Mikhelson, afferma di “non vedere alcuna probabilità che le banche non proseguano il finanziamento”. Segnale allarmante.

Ben prima di voltare le spalle al business del GNL russo e rivolgersi a quello statunitense, la prima banca italiana ha finanziato copiosamente l’estrazione di gas e petrolio nel Permian Basin, Texas. Idrocarburi prodotti in gran parte attraverso l’utilizzo di pratiche ultra-invasive come il fracking o la trivellazione orizzontale. Si stima che, entro il 2050, la combustione di tutte le riserve di

petrolio e gas del Permian Basin possa produrre l’emissione di 46 miliardi di tonnellate di CO2.

Nel gennaio 2022, Intesa Sanpaolo e altri istituti di credito hanno concesso un prestito di 3,48 miliardi di dollari a Global Infrastructure Partners (GIP) per l’acquisto del 49% del nuovo progetto Pluto Train 2 LNG train, la cui quota maggioritaria è detenuta dalla società australiana Woodside. La quota di Intesa è di 218 milioni di dollari. Questo progetto, situato nei pressi della penisola di Burrup, permetterà la liquefazione del gas estratto dal giacimento Scarborough – 435 km dalla costa dell’Australia occidentale – e da lì il commercio verso i mercati asiatico ed europeo.

C’è, infine, il Mozambico. Cabo Delgado, per la precisione, dove non solo è ‘di casa’ l’industria fossile, ma è in atto un’insurrezione guidata da vari gruppi armati che negli ultimi anni ha causato oltre 4mila vittime e 800mila sfollati. Nel 2017 UBI Banca, ora parte del gruppo Intesa Sanpaolo, partecipò al finanziamento di Coral South con 110 milioni di dollari. Di proprietà di Eni, questo progetto rischia di essere solo il primo del cane a sei zampe nel martoriato Paese, volendo aggiungere al suo portafoglio Rovuma LNG, mega-progetto di GNL che necessiterà di importanti capitali privati. Insomma, il coinvolgimento di Intesa potrebbe non fermarsi a Coral South.

Carlo Messina, amministratore delegato di Intesa Sanpaolo dal 2013, afferma che la sua banca “gode di un ottimo posizionamento nei principali indici internazionali, a conferma del nostro impegno a favore della sostenibilità”. Dati alla mano, la realtà racconta una storia differente: quella di una banca padrona del clima.

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