[di Antonio Tricarico] uscito il 12 luglio 2012 su Il Manifesto.
Alla fine di giugno il gestore americano di fondi privati Ecosystem Investment Partners ha annunciato di aver raggiunto l’obiettivo di racimolare sui mercati di capitali 180 milioni di dollari. Una grossa cifra, destinata a investimenti in progetti negli Stati Uniti associati con le compensazioni – in inglese offset – per gli impatti ambientali provocati da alcune delle opere previste e con stanziamenti a favore del mantenimento di aree protette, in particolare di zone umide.
La ditta per la gestione di fondi di private equity è stata creata nel 2006 proprio con il fine di capitalizzare sui mercati del pagamento dei servizi ambientali forniti dagli ecosistemi, il tutto nei contesti di mitigazione degli impatti su terre umide, fiumi e habitat di specie in pericolo. Insomma un pioniere della cosiddetta economia verde in versione finanziaria.
Sembra che l’interesse dei mercati per il nuovo prodotto sia andato oltre le aspettative e fondazioni private, famiglie ricche e individui benestanti, nonché grandi fondi pensione americani ed europei, abbiano versato trenta milioni in più del previsto. La Ecosystem Investment Partners ha promesso “ritorni superiori alla norma”. In periodo di turbolenza dei mercati finanziari e di mancanza di beni finanziari sicuri su cui investire, i progetti di compensazione collegati agli ecosistemi ambientali offrono buone opportunità di guadagno.
Ma come funzionerebbero questi nuovi mercati? Mettiamo che grosse ditte di costruzioni abbiano bisogno di realizzare mega opere in zone oggi protette, quali per esempio quelle censite dal programma Natura2000 nell’Unione europea. Con questi meccanismi possono devastare le aree “sensibili” chiedendo esenzioni alla normativa esistente, a patto di impegnarsi a investire in aree “ambientalmente equivalenti”, da proteggere in altre parti del Paese o del Pianeta. Oppure devono finanziare e acquistare certificati di tutela di biodiversità e degli ecosistemi per un valore equivalente al danno apportato.
Società come Ecosystem Investment Partners rivestono proprio il ruolo di veicolare risorse finanziarie in progetti di conservazione della natura che generano crediti. Crediti poi vendibili (con lauto guadagno) a imprese che non vedono l’ora di acquistarli, pur di continuare con il business di devastazione della natura. In questo caso si applica la stessa logica che oggi anima i mercati dei permessi di emissione di carbonio creati con il Protocollo di Kyoto.
Ciò che risulta paradossale è che il pagamento dei servizi forniti dalla natura potrà avvenire a soggetti privati incaricati di fatto di gestire e proteggere la natura stessa, beneficiando dei pagamenti o della vendita dei crediti. Una vera e propria privatizzazione della natura, soprattutto della parte che in futuro sarà preservata, ma su cui si emettono già oggi certificati di credito commerciabili sui mercati finanziari. Lo spiccato interesse di ricchi investitori in Ecosystem Investment Partners è la riprova che chi pensa che tutto questo sia solo un gioco virtuale che non funzionerà si sbaglia di grosso.
Si potrà poi obiettare che questi meccanismi sono completamente imperfetti e discrezionali nel valutare i servizi forniti dalla natura. Tranquilli, c’è già chi ci ha ragionato su come costruire e informare i nuovi mercati: il progetto Ecosystem marketplace, promosso da vari attori del settore privato con il sostegno di governi (come quello inglese), fornisce indicazioni continue sulla qualità dell’acqua, del carbonio e della biodiversità, perché “ per funzionare i mercati dipendono da informazioni trasparenti e affidabili. Ciò che è vero per gli investitori di Wall Street è altrettanto vero per gli attori dei mercati ambientali del carbonio, della qualità dell’acqua e delle biodiversità”. E proprio per questo ci dobbiamo preoccupare.