La Nigeria sull’orlo del baratro

Un fiume inquinato dal petrolio nel Delta del Niger. Foto © Luca Tommasini/Re:Common, 2010.

[di Alessandro Runci] pubblicato su Nigrizia.it

Con il prezzo del petrolio ai minimi storici, molti analisti si domandano quale sarà il futuro dell’industria estrattiva. C’è chi prevede la fine di un’era, e chi pensa che i prezzi risaliranno, anche se lentamente.

Di fronte a quella che si prospetta come una lunga fase di volatilità, le compagnie petrolifere e i loro finanziatori si stanno riorganizzando per tutelare i propri azionisti e coprire le perdite. Ma cosa ne sarà di quei paesi le cui economie dipendono dall’oro nero?

In Algeria, dove il bilancio pubblico si basa su un prezzo al barile di 109 dollari, il governo ha annunciato tagli drastici alla spesa pubblica, mentre le riserve di valuta estera sono destinate a crollare vertiginosamente.

La Nigeria, il più grande produttore africano, naviga in acque persino peggiori. Il crollo del greggio ha affossato il bilancio annuale costringendo il governo a svalutare la naira, la moneta locale, e a rimuovere i costosi sussidi sulla benzina. Nel disperato tentativo di recuperare risorse, l’esecutivo ha inoltre richiesto un prestito d’emergenza di 7 miliardi alle banche multilaterali.

Rischio recessione

Per un paese dove il petrolio rappresenta oltre la metà delle entrate per lo stato, il 90% dell’export e un terzo del credito bancario, gli impatti della crisi potrebbero rivelarsi devastanti. Le previsioni del Fondo monetario internazionale indicano una contrazione del Prodotto interno lordo del 3,4%, 5 milioni in più di disoccupati e una fuga di capitali esteri che farebbero sprofondare il paese in una recessione molto peggiore di quella del 2015, anche quella causata dal calo dei listini petroliferi.

Con l’esaurimento delle riserve di valuta estera, le importazioni si fanno sempre più complicate soprattutto per settori strategici come il manifatturiero e il farmaceutico, che rischiano di dover interrompere intere linee produttive per molto tempo.

La gestione del debito pubblico e del suo costo in termini di interessi sarà altrettanto complessa. Attualmente, i due terzi delle entrate pubbliche servono a coprire il servizio del debito e recentemente il senato nigeriano aveva approvato una nuova richiesta di prestito da 22 miliardi di dollari per finanziare opere infrastrutturali.

Nelle scorse settimane, le principali agenzie hanno declassato il rating della Nigeria, aggiungendo benzina sul fuoco. Secondo Fitch, ci sarebbero almeno 10 banche del paese esposte a rischi molto severi, proprio a causa della loro massiccia esposizione al settore petrolifero.

Visto il deterioramento delle condizioni macro-economiche e la conseguente reticenza dei prestatori a estendere concessioni, la prospettiva è quella di tagli drastici alla spesa pubblica, in un paese dove circa la metà della popolazione vive in povertà assoluta.

Il combinato disposto della crisi del petrolio e quella pandemica non fa che acuire enormemente le crisi pre-esistenti di una realtà dove la spesa sanitaria pro-capite è tra le più basse al mondo, così come l’aspettativa di vita. Un caso emblematico di come troppo spesso il petrolio sia benedizione per pochi e maledizione per tantissimi.

Le responsabilità del governo

Diversi analisti in questi giorni si stanno concentrando sulle responsabilità del governo nigeriano, colpevole secondo alcuni di non aver implementato misure economiche coraggiose in questi anni. Il presidente Muhammadu Buhari si è sempre schierato a favore di una moneta locale forte, respingendo così le pressioni di chi avrebbe preferito una politica economica più espansiva. Secondo Buhari, gli effetti di un aumento dell’inflazione si ripercuoterebbero soprattutto sulle fasce più povere della popolazione.

Va detto però che paesi come la Nigeria non hanno a disposizione i mezzi finanziari per mettere in campo misure economiche in grado di contrastare gli effetti devastanti della crisi in corso. L’intervento concordato dalla banca centrale nigeriana lo scorso mese è stato pari allo 0,7% del Prodotto interno lordo, un’inezia se paragonato a quelli delle economie occidentali, dove i programmi di rilancio si attestano in media al 10% del Pil.

Ciò detto, è indubbio che i governi che si sono succeduti in Nigeria, così come in tanti altri petrol-stati del continente, non sono esenti da colpe. L’aver puntato tutto o quasi sull’export di greggio, sacrificando settori come l’agricoltura o il turismo, invece di diversificare le economie, è stata una mossa estremamente rischiosa che ora saranno i più deboli a pagare.

Il ruolo delle aziende straniere e di Eni

Ma che ruolo hanno le compagnie petrolifere occidentali in questa vicenda? Quando le cose vanno bene, queste società sono le prime ad accreditarsi come agenti di sviluppo nel Sud Globale. Al contrario, se le cose vanno male, allora la colpa è dell’inadeguatezza delle istituzioni locali.

Eppure è evidente che senza l’appoggio diretto o indiretto dell’industria petrolifera, regimi come quelli che governano in Angola o in Egitto (solo per menzionarne alcuni) difficilmente potrebbero mantenere un tale livello di potere.

Nel Delta del Niger, una regione di 30 milioni di abitanti, l’italiana Eni opera sin dagli anni ‘60. Quel territorio che un tempo ospitava una ricchissima biodiversità, oggi è uno dei luoghi più inquinati del pianeta.

Chi deve assumersi le responsabilità di una tale devastazione? Sarebbe del tutto fuorviante imputare alle autorità locali le colpe della mancata diversificazione dell’economia della regione, senza tener conto delle continue fuoriuscite di petrolio che hanno reso la terra inadatta all’agricoltura e avvelenato le aree di pesca.  

Così come risulta difficile analizzare a fondo le cause delle difficoltà economiche di paesi come la Nigeria, non considerando i miliardi mai arrivati nelle casse dello stato per mezzo di contratti favorevoli alle major del petrolio.

Secondo la Commissione economica delle Nazioni Unite per l’Africa, ogni anno il continente perde circa 100 miliardi di dollari a causa di evasione ed elusione fiscale, soprattutto da parte delle grandi multinazionali.

Corruzione e caso OPL245

C’è poi il male per eccellenza: la corruzione. Anche qui, le narrazioni mainstream addossano tutte le colpe sull’avidità dei governi locali e il loro scarso senso delle istituzioni. Eppure, oggi, anche grazie all’azione del governo Buhari, sono proprio i vertici di Eni e Shell a essere a processo per corruzione internazionale a Milano, accusati di aver pagato una tangente da 1,1 miliardi di dollari per l’acquisizione di un giacimento petrolifero (OPL245) proprio in Nigeria nel lontano 2011. Una cifra superiore all’intero budget annuale per la sanità del paese.

Al processo la Nigeria si è costituita parte civile e intende richiedere i danni alle società in caso di condanna. Come testimoniato dagli esperti della parte civile, la licenza Opl245 valeva almeno 3,5 miliardi di dollari, mentre oggi, con un prezzo del petrolio ai minimi storici, chissà.

In queste ore si sta svolgendo l’Assemblea degli azionisti di Eni, che ha annunciato un taglio del 70% dei suoi investimenti per il 2020, aspettando la ripresa del settore. Quest’anno sarà comunque pagato il dividendo agli azionisti, in primis allo Stato italiano.

Anche se il cane a sei zampe è il primo produttore mondiale di petrolio in Africa, la pandemia ha derubricato per il momento la retorica dell’“aiutiamoli a casa loro” con l’espansione della frontiera del petrolio e del gas. Meglio attendere che passi la nottata e il prezzo del greggio risalga. Ma sembra proprio che né le oil majors né i governi africani abbiano un piano B oltre l’economia del petrolio, che rischia di trascinare tutti in una crisi economica e climatica senza precedenti.

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