La Mani Pulite caraibica che ci tocca da vicino

Punta Catalina, Repubblica Dominicana, Foto Luca Manes/Re:Common, 2017

[di Antonio Tricarico]

A fine novembre, a Santo Domingo, la capitale della Repubblica Dominicana, è scoppiata la versione locale di quella che ricorda tanto la nostra “Mani Pulite”. Il nuovo governo guidato da Luis Abinader, insediatosi a metà agosto scalzando il dominio incontrastato per sedici anni di Danilo Medina, ha mosso la Procura Generale ad arrestare due fratelli del presidente uscente con accuse di corruzione, il tutto nell’ambito di una retata ben più ampia.

La gente per strada chiede da giorni che si proceda anche contro Medina. Ma quello che sembra un sussulto civile molto lontano dall’Italia e dalla politica nostrana segnata dall’emergenza Covid e dai litigi sull’utilizzo dei fondi del Recovery Fund, in realtà ci riguarda, eccome.

Il nuovo procuratore generale del Paese, Miriam German Brito, ha riaperto un’indagine sugli affari della società brasiliana Odebrecht in Repubblica Dominicana. L’Oderbrecht ha già patteggiato la sua colpevolezza di corruzione con le autorità americane e quelle brasiliane nell’ambito delle propagini internazionali dell’inchiesta Lava Jato, che negli ultimi anni ha terremotato il Brasile. Anche il precedente esecutivo dominicano aveva favorito un patteggiamento, ma garantendo l’immunità ai manager locali di Odebrecht e soprattutto escludendo la centrale a carbone di Punta Catalina dalla lista dei progetti corrotti realizzati nel Paese fino al 2014.

Dalle carte delle procure brasiliane emerge che Odebrecht, alla guida di un consorzio che comprendeva anche l’italiana Maire Tecnimont e la dominicana Estrella, nel 2014 avrebbe pagato due senatori per far approvare uno schema finanziario del progetto più favorevole ai suoi proponenti tramite l’intermediario locale Angel Rondon Rio e le sue scatole societarie registrate nei Caraibi. Della maxi tangente di 92 milioni di dollari pagata in più di 10 anni per vari progetti, Punta Catalina sarebbe stato il piatto più ghiotto e potrebbe aver finanziato la campagna elettorale di Medina in quell’anno. Nell’estate del 2019, il consorzio investigativo ICIJ aveva rivelato che nella contabilità parallela di Oderbrecht rinvenuta nella sede in Repubblica dominicana diversi milioni di dollari sarebbero stati segnati espressamente come tangenti per Punta Catalina. La rivelazione ha portato alle dimissioni del presidente della Consob dominicana, Gregorio Salcedo Llibre.

Nel 2018, su segnalazione di Re:Common, la Procura di Milano ha aperto un’indagine per guardare alle responsabilità di Tecnimont nel progetto, procedimento ancora in corso e nel quale è stato chiesto con rogatoria il sostegno delle autorità dominicana. Con il cambio di governo e la nuova indagine su Oderbrecht potrebbe arrivare un rinnovato impulso anche per il lavoro degli inquirenti milanesi. La società italiana, che ha svolto un ruolo di primo piano nella progettazione ingegneristica della centrale, si è dichiarata estranea ai fatti contestati.

Punta Catalina, Repubblica Dominicana, Foto Luca Manes/Re:Common, 2017

Il progetto continua a essere oggetto di forti proteste da parte della società civile locale anche per i suoi impatti ambientali e sanitari. La centrale ha iniziato a funzionare a regime ridotto due anni fa, per altro con vari problemi tecnici alla caldaia e alla turbina, secondo quanto denunciato in varie occasioni da attori indipendenti. Il deposito delle ceneri della centrale è a cielo aperto, motivo per cui un ampio fronte di organizzazioni ambientaliste e sociali del Paese, sostenute anche dalle amministrazioni locali della provincia di Peravia e della città di Bani, sita a soli 20 chilometri dall’impianto, chiede la sua conversione a gas naturale e la rimozione delle ceneri inquinanti. Nel frattempo il Comitato nazionale per la lotta ai cambiamenti climatici ha chiesto al tribunale amministrativo superiore di Santo Domingo un’ordinanza per la sospensione dell’impianto, così da porre fine alla minaccia ambientale e sanitaria.

Tutti impatti che non solo gli sponsor del progetto, ma anche i suoi finanziatori, sembrano non aver tenuto in piena considerazione. Tra questi l’italiana Sace, il nostro assicuratore pubblico, che ha garantito prestiti bancati per 600 milioni di dollari a vantaggio del progetto – nel pool di banche guidato da Deutsche Bank c’è anche Unicredit. In seguito allo scandalo di corruzione emerso nel 2015, su pressioni di Re:Common e dei suoi partner, i finanziatori hanno sospeso l’esborso della seconda tranche di circa 300 milioni, poi decaduta per la mancata richiesta del governo dominicano, ed effettuato una due diligence legale esterna che però non avrebbe riscontrato problemi. Una posizione sorprendente, che andrebbe rivista alla luce della nuova indagine aperta dalla Procura Generale, ma anche in seguito ai gravi impatti del progetto denunciati dalle comunità locali.

La Sace, che proprio in queste settimane passerà da Cassa depositi e prestiti sotto il controllo esclusivo del ministero dell’Economia, è uno strumento centrale dei piani di ripresa economica del governo italiano, a partire dal decreto Liquidità dello scorso aprile. Senza fare luce sugli errori commessi nell’operazione Punta Catalina, è difficile credere che il governo e la Sace abbiano imparato dagli errori del passato e si possa evitare così di finire con il sostenere con soldi pubblici nuovi progetti corrotti o inutili contro la volontà delle comunità locali.

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