Pubblicato su Altreconomia.it
Il 30 giugno 2022 verrà ricordato come una data chiave per il Piano nazionale di ripresa e resilienza (Pnrr): l’asta per l’aggiudicazione dei lavori per la costruzione della più grande opera infrastrutturale del Piano è andata deserta. Parliamo della nuova diga foranea del porto di Genova, infrastruttura centrale per l’ampliamento di quest’ultimo, reputata non fattibile nei costi, nei tempi e nei modi indicati dall’Autorità di sistema portuale del mar Ligure occidentale.
Il progetto è stato autorizzato a maggio 2021 dopo numerose richieste di integrazioni da parte della Commissione di Valutazione d’impatto ambientale (Via), che ha vagliato le lacune emerse dalle osservazioni, tra cui anche quelle presentate da ReCommon. L’opera prevede lo spostamento della diga di 800 metri verso il mare aperto, tramite l’abbattimento dello storico sbarramento di fine XIX secolo, e la sua ricostruzione dovrebbe essere effettuata a una profondità maggiore.
Negli ultimi mesi le polemiche si sono sprecate. La sede ligure dell’Associazione nazionale dei costruttori edili (Ance) ha chiesto a più riprese di fermare l’iter del progetto e di ripensarlo. Come riporta la rivista di settore Shipping Italy, l’Ance sarebbe pronta a presentare un ricorso al Tar se non verranno aggiornati i costi. Anche Federlogistica, nella persona di Luigi Merlo, ha invitato a rivalutare la progettazione stessa dell’opera: “Ci sono osservazioni che vengono da diversi tecnici, specialisti e progettisti che anch’io ho sentito e che hanno mosso alcune preoccupazioni rispetto alla complessità di questa opera che sarebbe unica per lunghezza e complessità – ha dichiarato a Shipping Italy -. Se così fosse credo che una pausa di verifica, se le procedure lo consentono (non so a che punto sia lo stato dell’attuazione), secondo me sarebbe utile per fare qualche approfondimento. Perché se si avviasse il progetto e poi si bloccasse bisognerebbe evitare di avere un nuovo Mose”.
Merlo svolge anche la funzione di direttore delle Relazioni istituzionali in Italia del Gruppo Msc, il colosso globale della logistica e del trasporto marittimo: di fatto il principale beneficiario del progetto che però, nella fase attuale, non sembra apprezzare. Il costo della diga, inizialmente stimato in 1,3 miliardi di euro (di cui 950 milioni di euro per la prima fase, quella finanziata dal Pnrr) ora sarebbe salito a oltre due miliardi di euro.
Il porto di Genova è la “vera” sede italiana di Msc. Qui, alla sinistra della storica Lanterna, simbolo della città, sorge il grattacielo della compagnia italo-svizzera che ha investito sia sulle infrastrutture per la logistica sia per le crociere nel capoluogo ligure e continua a crescere grazie anche a un’invidiabile relazione con le istituzioni. Basti pensare sempre a Merlo, già presidente dell’Autorità di sistema portuale e adesso rappresentante di Msc; o ai viaggi in Svizzera di Paolo Emilio Signorini, attuale presidente dell’Autorità di sistema portuale del mar Ligure occidentale, per parlare con il patron di Msc, Gianluigi Aponte. O ancora alle relazioni preferenziali dello stesso Aponte e del Gruppo Spinelli con il presidente della Regione Liguria Giovanni Toti.
Non resteremo in silenzio. Continueremo a denunciare finché non avremo ottenuto giustizia! Ma abbiamo bisogno del sostegno di tutte e tutti, per difendere la nostra libertà ed il pianeta.
Ma se anche Msc, ovvero il maggior beneficiario dell’opera, chiede di bloccarla e ripensarla, perché il governo, il ministero delle Infrastrutture e la Regione Liguria tirano dritto? L’Ance in primis e poi in ordine le tre cordate invitate a partecipare al bando di gara hanno scritto a più riprese al presidente Signorini chiedendo di ripensarci. Nella lettera spedita da Pietro Salini di Webuild -già general contractor proprio del Mose- all’autorità portuale genovese, l’amministratore delegato della più grande corporation di costruzioni e ingegneria italiana definisce le “condizioni economiche a base di gara del tutto inadeguate, considerata anche la significativa allocazione dei rischi non quantificabili in capo all’offerente e i tempi di realizzazione estremamente contenuti”.
I problemi sono molti, come abbiamo segnalato noi di ReCommon nelle osservazioni al progetto e in un dossier inviato al Parlamento europeo assieme ad altre organizzazioni della società civile europea (scarica qui il dossier), il peccato originale della diga è proprio la mancata valutazione dell’impatto cumulativo dei diversi interventi infrastrutturali in corso nel porto di Genova. Per dirlo diversamente: tutta la riorganizzazione del porto si basa sulla costruzione della nuova diga foranea. In questo senso le opere dovrebbero essere considerate un intervento unitario e, dunque, con una valutazione complessiva degli impatti. Questa gara andata deserta potrebbe essere colta come un’opportunità per ridefinire l’intera espansione del porto di Genova, in un quadro di sostenibilità che deve riguardare tutta città, ma anche il modello di sviluppo più ampio in cui si va a inquadrare. Purtroppo ci troviamo davanti a una gestione pubblica sorda, che vede una sola soluzione possibile: realizzare “il nuovo Mose”, con il suo fardello di costi e impatti insostenibili a pesare sulle casse pubbliche, sulla collettività e sul Pianeta intero.