La borsa verde di Rio

Conferenza Rio+20 (foto Antonio Tricarico)
Conferenza Rio+20 (foto Antonio Tricarico)

[di Antonio Tricarico]

“L’obiettivo è quello di trasformare la legislazione ambientale in strumenti commerciabili”. Così Pedro Moura Costa descrive in qualità di fondatore la nascita della Borsa Verde di Rio de Janeiro, che sarà presentata questa settimana in occasione del vertice delle Nazioni Unite sullo sviluppo sostenibile. Moura Costa è il direttore della società Ecosecurities, specializzata in mercati finanziari per l’ambiente, e si è sempre occupato di foreste e permessi di emissione. Oggi è uno degli artefici della leadership che il Brasile sta prendendo sull’applicazione delle alchimie finanziarie alla presunta conservazione della natura a livello nazionale, e con il vertice Onu anche a livello internazionale, in quello che sta emergendo come il cuore della nuova “economia verde”.

Ma come funzionerebbe una borsa dei valori naturali? Negli ultimi anni due iniziative del programma delle Nazioni Unite sull’ambiente, entrambe guidate dall’ex banchiere di Deutsche Bank Pavan Sukdhev, hanno meglio definito il concetto di valorizzazione monetaria della natura. Nel rapporto sull’economia verde del 2011, Sukdhev propone che al fine di proteggere la natura e le sue funzioni, ossia i cosiddetti servizi che gli ecosistemi ci forniscono gratuitamente per la nostra sopravvivenza, bisogna dare loro un prezzo. Così se la biodiversità avrà un valore monetario, anche il mercato avrebbe un incentivo finanziario a proteggerla.

Non a caso una seconda iniziativa patrocinata anche dal governo tedesco e dal G8, l’Economia degli ecosistemi e della biodiversità, sta cercando di sviluppare una metodologia per dare un valore e prezzo proprio alla biodiversità. Così la natura può essere comprata, venduta e sottoposta alle forze di mercato. Si stima che ogni anno 17 tipi di servizi forniti dagli ecosistemi varrebbero 33 trilioni di dollari, pari a più della metà del prodotto interno lordo globale.

Due sono gli strumenti per rendere la biodiversità un bene di mercato. Nel pagamento dei servizi degli ecosistemi, un soggetto pubblico o privato può offrire incentivi a contadini o possessori di terra affinché quest’ultima sia gestita in modo da garantire un certo tipo di servizi ambientali, per esempio che una parte non sia coltivata intensivamente o che le foreste non siano tagliate. Un po’ quello che oggi fa la Coca Cola in India per rilanciare la sua immagine molto screditata di privatizzatore dell’acqua.

Nel commercio dei servizi, invece, incluse le cosiddette “banche degli habitat e delle specie”, si vuole creare una sorta di compensazione per l’uso della risorsa naturale, che viene ridotta a unità quantificabili e vendibili come merci. Così una comunità può cedere i diritti che ha su una foresta e questi possono essere commerciati.

La società che li acquista può compensare con questi la distruzione della biodiversità di una foresta da un’altra parte del pianeta. Peccato che questo approccio economicista dimentichi le funzioni culturali, spirituali e sociali che la natura offre alle comunità che vivono in quella foresta, che così andrebbero perse. Nell’ambito della Convenzione sulla biodiversità, oggi si sta negoziando la creazione di un “Meccanismo di sviluppo verde” per permettere questo commercio a livello globale, sulla falsariga di quanto avvenuto per i mercati di carbonio della Convenzione sul clima. Il mercato degli offset per la sola biodiversità varrebbe 20 miliardi di dollari l’anno. Ma per creare tali nuovi mercati globali è necessario che ogni paese introduca nuove legislazioni che standardizzino questo commercio. Così come ha già fatto il Brasile con il suo Codigo Forestal su pressione di Moura Costa e di altri attori.

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