La Banca Europea per gli Investimenti non rinuncia al gas?

Sit in davanti alla sede della BEI per chiedere lo stop ai combustibili fossili, 7 giugno 2019

[di Elena Gerebizza]

Il 15 ottobre i direttori esecutivi della Banca europea per gli investimenti (BEI) si incontreranno per prendere una decisione finale sulla nuova politica energetica dell’istituzione.

La BEI presta tra i 10 e i 12 miliardi di euro all’anno all’interno dell’Unione europea e di conseguenza è la più grande banca pubblica ad avere preso la decisione di non investire più in combustibili fossili dalla fine del 2020. Una decisione che segue un trend sempre più significativo tra gli investitori finanziari, e che risponde da un lato agli impegni politici presi dall’Unione europea e dagli stati membri a partire dall’Accordo di Parigi sul clima del 2015; e dall’altro alle sempre più frequenti e partecipate azioni e manifestazioni per il clima, fino alla recente settimana di azione globale promossa dal movimento dei Fridays for Future, che ha visto scendere nelle strade del pianeta milioni di ragazzi.

A voler guardare bene, non si contano le azioni dirette che hanno avuto luogo negli ultimi anni in Italia e in Europa per denunciare le fonti più acclarate di inquinamento e causa dei cambiamenti climatici: dalle occupazioni delle miniere di carbone in Germania, in Repubblica Ceca, in Polonia, ai blocchi delle centrali a gas a e a carbone nel Regno Unito, all’occupazione della sede di BNP Paribas durante la COP21 a Parigi; fino alle resistenze dal basso contro la costruzione di nuovi mega gasdotti, come nel caso del Movimento No TAP in Salento e della protesta dei contadini di Kavala in Grecia.

Gasdotti e centrali a gas in molti casi finanziati proprio dalla Bei, che si è trovata essa stessa oggetto di un’azione diretta lo scorso giugno, quando decine di attivisti hanno bloccato l’incontro del board della banca per chiedere un cambio di rotta proprio nell’investimento alle fonti fossili. La risposta della Bei è stata una policy che in effetti accoglieva le richieste degli attivisti e di un movimento sempre più trasversale che chiede un cambio reale nel modello energetico, che è stata celebrata come una vittoria.

Ma dalla sua pubblicazione ad agosto a oggi, i governi e le lobby del settore, in particolare del gas, hanno messo mano al testo provando a forzare dei passi indietro. Così la nuova versione della policy – pubblicata venerdì a questo link: https://www.eib.org/attachments/consultations/revised-draft-energy-lending-policy-20190926-en.pdf – non parla più in maniera netta di un’uscita dalle fossili, ma introduce la possibilità che la Banca continui a finanziare ad esempio centrali a gas – o la conversione a gas di centrali a carbone – se provviste di un piano di abbattimento delle emissioni fino a 250 gCO 2 per kWh di elettricità generata. Oppure ancora, prevede che la banca finanzi i progetti inclusi nella nuova lista dei “progetti di interesse comune” europei che siano approvati entro la fine del 2020 (anche se ad esempio la loro costruzione inizierà dopo il 2020). Lista che contiene diversi progetti controversi promossi dal governo italiano, come il contestato Galsi, il gasdotto che dovrebbe collegare l’Algeria alla Sardegna, sospeso per anni dopo uno scandalo corruzione vedeva tra gli imputati la stessa Eni, e incredibilmente ripresentato nel corso di quest’anno come progetto di punta per l’Italia. Ma anche la rete Adriatica – il mega gasdotto lungo la dorsale appennininca promosso dalla Snam, presentato come parte del Corridoio Sud del gas – e il “Tap Interconnector” ovvero il contestato gasdotto che dovrebbe collegare il TAP con lo snodo della rete di distribuzione del gas a Mesagne, vicino Brindisi, e il gasdotto Matagiola-Massafra.

È chiaro quindi che se da un lato la scadenza del 2020 rimane un passo importante per limitare i prestiti della Bei ai combustibili fossili, dall’altro non sarà questa policy a fermare tutti i progetti devastanti che le aziende del settore – e gli stessi governi – vogliono continuare a costruire, vincolandoci sempre di più all’economia delle fossili, agli impatti sull’ambiente e sul clima, ma anche a un modello che espropria le comunità – soprattutto quelle in prima linea – della possibilità di decidere del proprio futuro.

È il governo italiano che deve fare un passo indietro sulle fossili, chiudendo le anacronistiche centrali a carbone che ancora operano in Italia, dalle “grandi” di Brindisi e Civitavecchia, alle piccole di La Spezia, Brescia, Portoscuso e Fiumesanto in Sardegna, Fusina e Monfalcone nel Nord-Est, fermando al contempo la costruzione di nuovi gasdotti. Al di là della retorica di promesse di green deal italiani o europei, chiudere questi molossi e fermare la costruzione di nuovi gasdotti sarebbe l’unico passo credibile perché questo governi dimostri di avere ascoltato le richieste delle nuove generazioni.

[Aggiornamento] Scarica e leggi la lettera “It’s time to stand firm and go Fossil Free” inviata al presidente della BEI, Werner Hoyer, da settanta organizzazioni della società civile europea
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