Il TAP è sistemico – e così chi lo sostiene

Cantiere TAP a Melendugno (Le), luglio 2017, foto Re:Common

[di Elena Gerebizza]

Il 3 e il 4 luglio 2018 scorsi sono successi due fatti forse non direttamente collegati tra loro, che però meritano entrambi una riflessione. Il 3 luglio il quotidiano danese Berlingske pubblica un’inchiesta che fa luce sulle dimensioni assunte dallo scandalo di riciclaggio internazionale nato dall’Azerbaijani Laundromat, e al centro dell’indagine delle autorità danesi (ne abbiamo parlato qui: “Azerbaijani Laundromat, lo scandalo si allarga“). Il 4 luglio, il nuovo governo italiano, “il governo del cambiamento”, approva tramite il suo rappresentante presso la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo un prestito di 500 milioni di euro al gasdotto TAP (a questo link la notizia della Reuters).

Quando nel marzo del 2017 abbiamo ribadito le ragioni per cui il gasdotto TAP non andava costruito (vedi l’articolo: “Perché no tap né qui né altrove“), forse ce ne siamo dimenticata una. O meglio, non l’abbiamo scritta perché ci sembrava banale farlo, ma alla luce dei fatti ci siamo detti che forse non è così, ed è bene esplicitarlo. La ragione è che il gasdotto TAP – e il resto del Corridoio Sud del gas – è sistemico, ovvero funzionale alla continuazione dell’ordine delle cose attuale, e come tale non solo non è parte della transizione verso qualsiasi futuro più democratico o climaticamente più sostenibile, ma è un blocco a questo cambiamento.

Che cosa intendiamo dire? Che il gasdotto TAP è un problema che va ben oltre la lettura superficiale che se ne riesce a dare nel non-dibattito attuale. Chi fino ad oggi ha cercato di ridurre lo spazio della discussione sul TAP provando a guardare “solo” agli impatti ambientali, o al rischio industriale collegato al progetto, lo ha fatto con l’intenzione di limitare la discussione all’estetico miglioramento del progetto, evitando di mettere in discussione il progetto stesso. Parliamo ad esempio di chi pensava che spostando il punto di approdo del gasdotto, o cambiandone il tracciato, se ne sarebbe ridotto l’impatto. In questo ambito limitato giocano le istituzioni finanziarie pubbliche, come la Banca europea degli investimenti e la Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo, che fallimento dopo fallimento ancora non sono riuscite a trovare uno spazio di ascolto e confronto con le persone e le istituzioni locali – come la commissione tecnica del Comune di Melendugno, e il Movimento No TAP in Italia, o altri soggetti in Albania e in Grecia – che hanno denunciato già da anni i danni (e l’assenza di benefici) collegati al progetto. In questo stesso spazio, che comprende anche la possibilità che siano avvenuti falsi e abusi d’ufficio collegati al processo di autorizzazione del gasdotto – oggetto di svariate denunce nel corso degli ultimi anni – gioca anche l’indagine della Procura di Lecce, che ha riaperto il fascicolo sul gasdotto in seguito alla denuncia dei sindaci presentata a gennaio di quest’anno.

Ma alzandoci in punta di piedi e guardando oltre la cortina di fumo della discussione delimitata dalla politica e dalle istituzioni, vedremo la valenza sistemica del TAP. Oltre quel fumo fitto si trovano alcuni dei motivi per cui nessuno dei partiti politici che finora hanno espresso delle perplessità su alcuni aspetti del progetto, sono riusciti a trasformare quelle perplessità in una posizione chiara e definita, e soprattutto a traslare le perplessità in azione pratica, concreta, efficace per fermare la costruzione del progetto. Un’azione non ideologica e urlata, bensì politica. Ragioni che per altro sono difficili da vedere anche da molte delle persone che guardano “in alto” in attesa di un’azione salvifica che finalmente blocchi la costruzione del progetto.

Vedremo così che il TAP è sistemico perché risponde a un quadro di interessi che non è pubblico, o di interesse pubblico o collettivo, e che va molto al di la della “sicurezza energetica” o della “diversificazione delle fonti” o della dichiarata “strategicità europea” dell’opera. Gli interessi a cui risponde sono piuttosto privatistici, ovvero ricadono nell’ambito in cui il pubblico e il privato si mescolano, e l’azione che ne deriva va a beneficio di alcuni attori privati che però sono ben lontani dal rappresentare l’interesse pubblico, e di alcuni soggetti che rivestono funzioni pubbliche, senza per questo rappresentare l’interesse pubblico. E’ questo il quadro di interessi che sta a monte degli schemi societari del Corridoio Sud del Gas in Turchia, emersi dalle inchieste de L’Espresso dello scorso anno, e esplicitati nella mappa di interessi pubblicata qui: https://graphcommons.com/graphs/bce3e757-6529-4148-a3f9-3c83167c109d

E’ anche il quadro di interessi che emerge dallo scandalo di riciclaggio internazionale investigato in Danimarca, in cui sono coinvolti due dei paesi con cui l’Europa (e l’Italia) intrattengono relazioni commerciali centrali, soprattutto in ambito energetico. Due paesi governati dalle stesse elites dagli anni Novanta a oggi, che hanno costruito la propria ricchezza in buona parte sulla vendita di petrolio e gas, e da cui dipende in buona parte la “sicurezza energetica” italiana e europea.

I due prestiti pubblici concessi al gasdotto TAP dalla Banca europea degli Investimenti, e dalla Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo sono anche loro funzionali a questo quadro di interessi, e ugualmente sistemici. In questo senso non c’è stata differenza tra il governo Gentiloni e il governo Conte: entrambi hanno risposto allo stesso schema di interessi, nessuno ha messo in discussione niente dello status quo, nessuno ha dato un segnale di “cambiamento”.

Eppure la storia recente ha visto diversi casi in cui l’Italia si è astenuta dal voto relativo alla concessione di prestiti molto controversi attraverso le istituzioni finanziarie multilaterali a cui partecipa. Ad esempio nel caso dell’oleodotto Ciad-Camerun (come riportato nella relazione dal Tesoro che potete trovare a questo link) dove uno degli aspetti critici era proprio quello della corruzione, o nel caso della centrale a carbone di Medupi in Sud Africa, di cui parlò anche il The Guardian.

I governi che avevano deciso di astenersi allora erano “governi del cambiamento”? Certamente no. Astenendosi questi governi non hanno fatto niente di rivoluzionario, avevano scelto una delle opzioni previste dai protocolli interni alle banche multilaterali, basando la decisione su motivazioni tecniche, sulla base di una valutazione assolutamente politica. Tanto politica quanto la decisione di votare a favore di altri progetti, tra cui il gasdotto TAP.

Tra febbraio e luglio, la continuità nella posizione a favore di entrambi i finanziamenti presa dal governo uscente e da quello appena insediato confermano che il progetto nel settore energetico più controverso in Italia e in Europa, il TAP appunto, rimane sistemico.

Entrambi questi governi ci ricordano che se vogliamo costruire il cambiamento dovremo per forza alzarci in punta di piedi, guardare oltre, e ripartire da lì.

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