“Basta bruciare, trivellare e scavare la nostra strada più in profondità. Stiamo scavando le nostre stesse tombe. La nostra dipendenza dai combustibili fossili sta spingendo l’umanità verso il baratro. Siamo di fronte ad una scelta cruda: O lo fermiamo noi – o lui ferma noi. È ora di dire: basta.”
Mai come questa volta le parole del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Antonio Guterres, all’apertura del Vertice dei Leader Mondiale all’inizio della COP26 sul clima a Glasgow sono state chiare. L’impegno netto a smetterla subito con i combustibili fossili sembra l’unico modo per non rendere il vertice mondiale sul clima tanto atteso una BLA26, come sarcasticamente definita dall’attivista svedese Greta Thunberg, ormai simbolo della coscienza critica planetaria nella lotta fino ad oggi fallimentare ai cambiamenti climatici.
Un appello drammatico quello di Guterres che fa il pari con quello di Papa Francesco che aveva già chiesto ai leader globali riuniti al G20 di Roma lo scorso fine settimana a prendere delle “decisioni radicali”. Scelte che non sono arrivate, a parte l’impegno a mantenere per la metà del secolo il riscaldamento del pianeta entro il grado e mezzo rispetto ai livelli pre-industriali. Ciò significa che le economie del pianeta dovrebbe diventare neutrali carbonicamente al 2050, ma sulle date si è negoziato e si continua a farlo, se la Cina e la Russia reclamano il 2060 e l’India addirittura il 2070. L’assenza del Presidente cinese Xi Jinping e di quello russo Vladimir Putin, per non parlare del recalcitrante turco Recep Erdogan, sembrano minare già dalle fondamenta il vertice sul clima.
Alla conferenza sul clima di Parigi nel 2015, i paesi hanno concordato di lavorare per mantenere il riscaldamento globale al di sotto dei 2 gradi rispetto all’era pre-industriale, puntando il target di 1,5 gradi (al momento siamo già oltre 1,1). Se la COP21 francese è stata importante perché si è raggiunto l’accordo su un obiettivo, la COP26 dovrebbe stabilire più nel dettaglio come raggiungerlo. Il tutto tenendo in debita considerazione che per rispettare la prima scadenza del 2030, fissata per invertire il trend della crisi climatica attraverso il taglio di almeno il 40% dei gas serra, non manca tanto.
Purtroppo si sta ancora facendo ben poco in questa direzione e troppo, invece, nel promuovere pseudo nuove tecnologie – ancora non efficaci su larga scala e che in ogni caso non arriveranno in tempo prima della catastrofe climatica – che dovrebbero aiutare ad assorbire le emissioni di anidride carbonica permettendo così di continuare a bruciare combustibili fossili. Da cui la definizione della riduzione “netta” delle emissioni e non assolute, come il senso comune penserebbe dopo l’appello accorato di Guterres.
In vista della COP26 è stato chiesto ai governi di rendere pubblici i loro nuovi piani d’azione. L’ultima stima delle Nazioni Unite sulla base di tutti quelli presentati prima del vertice di Glasgow mette il mondo su una traiettoria di riscaldamento di ben 2,7 gradi. Questo significherebbe una catastrofe totale, soprattutto per quei paesi che non hanno le risorse necessarie per adattarsi a fenomeni climatici sempre più estremi.
Sul carbone, la cui combustione è tra le principali cause delle emissioni responsabili dell’aumento dell’effetto serra e del riscaldamento globale, il G20 di Roma ha raggiunto un accordo solo sul non finanziare nuovi impianti all’estero. Mancano all’appello progetti nuovi ed esistenti che impazzano soprattutto in Asia. Ed è di queste settimane l’annuncio della Cina di voler aumentare la produzione di carbone – il più inquinante dei combustibili fossili – per far fronte alla crisi energetica. Un provvedimento che costituisce un colpo basso per il premier britannico Boris Johnson, che come padrone di casa a Glasgow vorrebbe raggiungere un phase out globale sul carbone, allo stato dei fatti difficile da ottenere.
Altro terreno di scontro tra i diversi paesi sarà la misurazione e gli obbligi di reporting sulle riduzioni di emissioni, aumentando la trasparenza che oggi langue. Senza un meccanismo efficace si rischia di sprofondare nel greenwashing più assoluto. Un altro lascito della conferenza di Parigi è quello di fissare delle regole per i mercati del carbonio, in particolare su come gli Stati e le imprese si possono scambiare crediti di carbonio, ossia permessi di inquinamento. Questi permessi sono o assegnati dai governi o generati da progetti che dovrebbero assorbire anidride carbonica, quali la conservazione delle foreste o la riforestazione – quest’ultima su cui il G20 ha fatto un annuncio roboante quanto discutibile. Operazioni spesso contestate per la loro efficacia e che comportano impatti per le popolazioni locali, in particolare i popoli indigeni. I mercati del carbonio sono già regolamentati in Unione Europea, Cina e California, ma funzionano anche su base volontaria in altri paesi e per alcuni settori. La creazione di un unico mercato mondiale di carbonio che armonizzi quelli esistenti lascerebbe lo stesso domande aperte sull’efficacia ultima dello strumento e i costi del funzionamento, premiando più alcuni paesi di altri. Motivo per cui alla scorsa COP di Madrid del 2019 non si è raggiunta alcuna intesa su questo dossier.
Sorprendentemente il Presidente del Consiglio Mario Draghi nel discorso di ieri in apertura della COP26, vista la co-presidenza italiana della conferenza con il Regno Unito, ha ammesso che a Glasgow bisogna andare oltre i risultati raggiunti il giorno prima dal G20 a Roma sotto la sua presidenza. Questa assise aveva confermato il ritrito impegno di 100 miliardi di dollari l’anno per la finanza per il clima – non ancora raggiunto senza rispettare la scadenza del 2020 fissata dieci anni prima – senza dare alcun dettaglio su quanti di questi fondi andranno per l’adattamento ai cambiamenti climatici nei paesi impoveriti.
Il Regno Unito ha rivelato un piano di finanziamento per il clima, mediato da Germania e Canada, che stabilirebbe un processo per mettere a disposizione i fatidici 100 miliardi, ma non prima del 2023. Tuttavia a Glasgow si deve pensare a più fondi da trovare dopo il 2025, perché visti i crescenti effetti della crisi climatica è scontato che di denaro ne servirà molto di più. Anche su questo punto Draghi è stato tranchant: i trilioni di dollari ci sono, ma vanno spesi subito e bene. Il suo è un riferimento alle numerose iniziative volontarie del settore privato finanziario favorite dal governo inglese in vista della COP26. Impegni a parole di avere un portfolio finanziario net-zero da parte delle principale banche e investitori mondiali che però ad oggi continuano a finanziarie l’espansione della frontiera petrolifera e del gas contro le raccomandazioni dell’Agenzia internazionale dell’energia, per cui vanno fermati da subito nuovi investimenti nell’oil&gas. Si pensi solo che dall’Accordo di Parigi sono stati investiti 3,8 trilioni di dollari in nuovi progetti a combustibili fossili le cui emissioni rimarranno in atmosfera per decenni.
In attesa di sviluppi dal centro congressi Scottish Exhibition Campus sulla riva del fiume Clyde, in quello che fu il cuore della Glasgow industriale, la società civile locale e internazionale farà sentire forte e chiara la sua voce. Il 5 e il 6 novembre sono in programma due manifestazioni, la prima è il climate strike dei ragazzi e delle ragazze dei Fridays for Future, con una marcia guidata da Greta Thunberg, la seconda coinciderà con il global day of action che si stima possa portare per le strade di Glasgow almeno 100mila persone. Extinction Rebellion ha già fatto sapere che inscenerà azioni non violente che avranno “impatti rilevanti” nei giorni del vertice ufficiale.
Dal 7 al 10 novembre si terrà invece un ricchissimo contro-vertice, il COP26 Coalition People’s Summit, con più di 200 fra incontri e seminari sparsi a macchia di leopardo in oltre una dozzina di sedi in tutta la città. All’apertura del vertice di Glasgow poco meno di mille organizzazioni della società civile internazionale, tra cui ReCommon, hanno chiesto soluzioni reali e urgenti per smetterla con i combustibili fossili, e non impegni lontani e generici sul net-zero di governi, imprese e istituzioni finanziarie che rischiano di non muovere alcun cambiamento concreto da domani. Mai come oggi si spera che il cambiamento arrivi dal basso, dalle piazze e dai giovani prima che sia troppo tardi.