[di Luca Manes] pubblicato su Altreconomia.it
Le centrali a carbone europee non sono solo inquinanti, ma hanno ormai perso anche la loro convenienza economica. Anzi, come racconta l’ultimo rapporto di Carbon Tracker, “Apocoalypse Now”, all’interno dei confini dell’Unione europea quattro impianti su cinque non garantiscono profitti ma perdite che, secondo le stime degli analisti del think tank finanziario, per il solo 2019 potrebbero ammontare a 6,6 miliardi di euro.
Il phase out della polvere nera è già cominciato, visto che rispetto al 2018 la produzione di carbone è diminuita del 39 per cento, quella della lignite del 20. Carbon Tracker ha calcolato che l’84 per cento della generazione di lignite e il 76 per cento della produzione di carbone fa registrare una passività: tra utili e perdite, il saldo è negativo di 3,54 miliardi per la lignite e di 3,03 miliardi per il carbone. Il Paese con i conti maggiormente in rosso è la Germania, che però ha fissato nel lontano 2038 la chiusura definitiva di tutti i suoi impianti. Gli utili più ingenti sono registrati in Polonia, dove lo Stato sovvenziona in maniera massiccia il comparto, da cui deriva circa l’80 per cento del mix energetico nazionale, e la prospettiva è continuare a dipendere dal carbone almeno fino a metà del secolo corrente. Val la pena ricordare che, dopo una lunga campagna di pressione promossa tra gli altri da Greenpeace e Re:Common, nel 2018 Generali ha deciso di non fornire più coperture assicurative per la costruzione di nuove centrali e miniere di carbone in Polonia. Tuttavia, il Leone di Trieste continua ad assicurare le centrali già esistenti e la società che le gestisce, PGE. Lo stesso è accaduto in Repubblica Ceca -dove il carbone conta per il 43 per cento nel mix energetico- con la CEZ.
Se valichiamo i limiti dell’Unione europea, ci imbattiamo in un altro Paese dove il carbone è ancora una “fonte privilegiata” nonostante le pessime ricadute finanziarie e dove c’è un grosso player italiano coinvolto. Parliamo, rispettivamente, di Turchia e UniCredit.
La banca italiana, infatti, ha finanziato IC Ictas, Limak e Bereket Enerji per acquisire le centrali altamente inquinanti di Yenikoy, Kemerkoy e Yatagan nella regione di Mugla, vicino Bodrum, rinomata destinazione turistica nel Sud-Ovest del Paese. La deroga dovrebbe scadere a fine anno, se il governo guidato da Recep Erdogan, che ha promosso uno sfruttamento intensivo delle miniere di lignite che alimentano gli impianti, non la rinnoverà con un decreto blitz di fine anno. Altrimenti per adeguarsi ai limiti sulle emissioni le società dovranno fare grossi investimenti per il retrofit degli impianti; ma le banche turche sono allo sbando e non ce la fanno più a prestare su ordine politico a società economicamente non redditizie, ma vicine al partito di governo.
Questo il caso della Bereket, ormai sull’orlo del fallimento, a dar retta agli analisti di Bloomberg. Quindi senza esenzioni il futuro degli impianti potrebbe essere nelle mani di banche straniere, come la UniCredit, anche se in Turchia le perdite della banca sono già elevate al punto che si ventila una riduzione della presenza nel paese con la riorganizzazione dell’intero gruppo attesa per dicembre. Insomma, il carbone è un pessimo affare, ma in tanti fanno ancora fatica a capirlo.