Estrattivismo in Medio Oriente, il racconto dell’attivista Ya’ara Peretz

Ya’ara Peretz è un’attivista per la giustizia climatica. Vive a Tel Aviv, dove lavora per la Ong ambientalista Green Course, il cui obiettivo è “dare sostegno alle comunità locali e condurre campagne pubbliche per influenzare i decisori politici affinché promuovano politiche giuste e sostenibili”.

Abbiamo fatto una lunga chiacchierata con Ya’ara, in cui lei ci ha raccontato la sua esperienza di attivista in un contesto complesso, dove l’occupazione dei territori palestinesi e l’emergenza climatica sono spesso due facce della stessa medaglia.  

Il tema che seguo di più è la crisi climatica, declinata nel contesto locale e regionale. Stiamo cercando di mettere fine all’era dei combustibili fossili, promuovendo una giusta transizione verso fonti rinnovabili. Abbiamo anche altre campagne. La nostra associazione è composta da volontari e abbiamo una struttura molto orizzontale, non gerarchica. Tutte le decisioni sono prese in maniera collettiva dai volontari che si relazionano con le comunità e in base alle loro esigenze scelgono quali campagne promuovere sui territori”.

Green Course organizza azioni dirette non violente e manifestazioni, ma fa anche lobbying, advocacy e cyber attivismo. “Cerchiamo in ogni modo di far breccia sui media mainstream per influenzare l’opinione pubblica. Qui da noi non è per niente facile, per questo cerchiamo di diversificare il più possibile”.

Usiamo tutte le piattaforme per comunicare con il pubblico. Azioni dirette, non violente, manifestazioni, comunicazione sui social network, lobby advocacy e cercare anche di far passare nostri messaggi su media mainstream. Ma non è facile qui, per questo diversifichiamo il più possibile

La sua collaborazione con Green Course ha avuto inizio alla tenera età di 14 anni, quando scoprì che il mondo era minacciato dalla crisi climatica. Ad aprirle gli occhi fu An Inconvenient Truth. “Dopo aver visto il film di Al Gore provai molta frustrazione e rabbia, perché fino a quel momento non sapevo nulla di un tema così importante come il surriscaldamento globale. Nessuno ne parlava sui media e a scuola e io volevo fare qualcosa per porre fine a questa tragedia. Ho iniziato nel mio piccolo, smettendo di mangiare carne, usando più la bici e facendo un uso più parsimonioso della corrente elettrica”.

Negli anni la sua consapevolezza e conoscenza del problema cresceva, ma a livello internazionale non si registravano passi avanti significativi. “Nel 2013 mi sono iscritta all’università e lì ho appreso dell’esistenza di Green Course, sposando quasi subito la loro lotta per la giustizia climatica. All’interno dell’associazione ormai ho gran parte dei miei migliori amici, d’altronde l’aspetto sociale è molto importante e non a caso uno dei tratti distintivi di Green Course è proprio il dare sostegno alle comunità, e noi siamo una comunità”.

Se la crisi climatica è globale, è pur vero che ci sono delle parti del mondo dove i suoi effetti sono ancor più evidenti che altrove. È esattamente il caso del Medio Oriente. “Numerosi rapporti scientifici ci spiegano che in molti paesi della nostra regione ci saranno luoghi non più abitabili a causa delle temperature insostenibili. La desertificazione, la scarsità di acqua e l’impossibilità di coltivare sono il motivo per cui sempre più persone saranno costrette a migrare. Anche perché è già dura adesso, figuriamoci fra 20 anni, specialmente se non ci saranno interventi significativi”.

L’emergenza climatica e la scarsa sensibilità alla questione dimostrata dal governo israeliano si intrecciano con un’altra emergenza irrisolta: l’occupazione dei territori palestinesi. “Controlliamo due milioni di persone con un regime militare. Persone che non hanno sovranità sulle loro risorse naturali né il controllo della loro vita e tutto ciò ha delle conseguenze negative anche sulla crisi climatica. Senza la pace e la giustizia con i nostri vicini non si possono raggiungere dei risultati positivi. Io penso che la terra sia una sola, ci siamo inventati noi dei confini e questo costituisce un problema, un’emergenza politica che stiamo cercando di affrontare dal basso. Solo così si può risolvere questa crisi, non come ha fatto il governo israeliano negli ultimi dieci anni”.

Un esecutivo molto pro-combustibili fossili, quello guidato da Benjamin Netanyahu, tanto che il ministro dell’Energia sta promuovendo ben 34 nuovi progetti “nemici del clima”. Uno di questi è il famigerato Eastmed, un gasdotto lungo 1.900 chilometri dal costo di circa 5 miliardi di euro che  dovrebbe trasportare 10 miliardi di metri cubi di gas nel mercato europeo. I principali giacimenti di gas interessati sono il Leviathan, proprio in Israele, e l’Aphrodite a Cipro. Il proponente del progetto è un consorzio italo-greco chiamato IGI Poseidon SA, una joint venture tra la società energetica italiana Edison SpA – di proprietà della francese EDF – e la società energetica greca DEPA. Una potenziale bomba a orologeria nel delicatissimo contesto geopolitico della regione, visto che oltre Cipro e Israele, il tragitto della pipeline interesserebbe pure Turchia e Grecia.

“Israele è anche il crocevia del petrolio che dagli Emirati Arabi Uniti arriva in Europa, un progetto dagli effetti nefasti e su cui come Green Course stiamo conducendo una campagna che chiede proprio di rivedere dalle radici le politiche energetiche del nostro Paese”.

Le ricadute di queste attività estrattive su un’area dove la biodiversità è molto a rischio, come i paesi bagnati dal Mediterraneo, sono evidenti. Lo scorso febbraio si è verificato un gravissimo incidente, allorché una petroliera ha disperso in mare buona parte del suo carico. Si è trattato del peggior disastro ambientale avvenuto in Israele negli ultimi dieci anni, che ha coinvolto circa il 40% della costa del Paese (per oltre 180 chilometri), colpito 16 comunità e provocato gravi danni alla fauna marina. Un episodio molto grave, che Green Course ha cercato di contestualizzare il più possibile per spiegare come un sistema fondato sui combustibili fossili vada incontro alla catastrofe.

L’opinione pubblica non è ancora pienamente consapevole di quali sono i pericoli legati alla crisi climatica. Abbiamo notato dei progressi negli ultimi tre anni, ma c’è ancora tanto da fare, anche perché vengono circolati dei messaggi fuorvianti dal governo e dalle compagnie fossili. In particolare che il gas è ‘buono’, come raccontano da noi, ma anche in Europa e negli Stati Uniti”.

Insomma, la strada da fare è ancora tanta, ma ci sono dei segnali incoraggianti. “A delle azioni che abbiamo promosso hanno partecipato anche gruppi animalisti o che si occupano della tutela dei diritti umani. La società civile sta acquisendo maggior consapevolezza, stanno nascendo nuovi gruppi, come One Climate o il movimento Gastivists dove sono sempre più coinvolti anche attivisti palestinesi. Stiamo cercando di imparare in maniera reciproca, di avere scambi e di diffondere sempre più il messaggio che l’occupazione e l’emergenza climatica sono due elementi più collegati di quanto si pensi”

Come dimostra in maniera lampante il gasdotto Eastmed, l’uso dei combustibili fossili non è il modo di promuovere pace e stabilità nel Medio Oriente. “Nei vari paesi che saranno attraversati dal gasdotto, qualora vedesse la luce, si sta organizzando l’opposizione al progetto. Purtroppo non si tiene in debita considerazione come un’opera del genere andrà a impattare anche i territori palestinesi, per questo noi ci stiamo impegnando anche su questo fronte”.   

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