Eni in Sudafrica, tra perforazioni offshore e le preoccupazioni degli attivisti

Sede Eni a Roma, foto Carlo Dojmi di Delupis/Re:Common

[di Giulia Franchi] pubblicato su Altreconomia.it

“Eni non ha mai fatto una perforazione offshore in Sudafrica. Tutti quei pescatori che se ne sarebbero dovuti andare o quel disastro che avremmo causato… Non abbiamo fatto neanche un pozzo in Sudafrica, aspettate almeno che facciamo un pozzo prima di attaccarci”.
Con questo tono misto di noia e insofferenza, l’amministratore delegato della principale azienda petrolifera italiana Claudio Descalzi liquidò le domande poste al management della società durante l’ultima assemblea annuale degli azionisti, lo scorso 14 maggio, da una delegata della South Durban Community Environmental Alliance (SDCEA). La SDCEA è un’organizzazione non governativa che rappresenta 18 realtà comunitarie che si occupano di giustizia ambientale e di sviluppo sostenibile in Sudafrica. L’Ong cerca di tutelare persone vulnerabili e svantaggiate, la cui vita e mezzi di sussistenza dipendono direttamente dalla protezione degli ecosistemi marini. In particolare nella provincia costiera del KwaZulu-Natal, nelle vicinanze di Durban, una regione rigogliosa nota in tutto il mondo per le sue spiagge cristalline, le montagne incontaminate e una savana sterminata, popolata da animali di grossa taglia. Diverse aree marine protette fanno parte della costa KwaZulu-Natal, che contribuiscono in modo significativo alla sua diversità biologica e alla sua salute ecologica. Oceani sani sono di fondamentale importanza per la vita marina e per le comunità costiere le cui economie si basano sul turismo, la pesca e le attività ricreative.

Per meglio comprendere quello che Descalzi giudicò fosse solo allarmismo preventivo degli attivisti sudafricani, ricordiamo quanto avvenuto nel Golfo del Messico nove anni fa. Il disastro della Deepwater Horizon è considerato il più grande incidente di sversamento in acque profonde della storia dell’industria petrolifera, diventato nel 2016 un film che racconta gli eventi del 20 aprile 2010, quando la piattaforma di perforazione Deepwater Horizon esplose nel bel mezzo del golfo, innescando una massiccia palla di fuoco che uccise 11 membri dell’equipaggio. Ma a tenere il mondo con il fiato sospeso fu quanto successo nei quattro mesi, quattro settimane e due giorni successivi all’esplosione, e cioè la perdita di oltre 4,9 milioni di barili di petrolio nell’oceano. La marea nera si estendeva su migliaia di chilometri quadrati del Golfo del Messico, contaminando centinaia di spiagge, paludi ed estuari. L’Enciclopedia Britannica stima siano stati inquinati complessivamente 1.770 chilometri di costa.

Lo spettro di una simile catastrofe al largo del KwaZulu-Natal è uno dei motivi principali per cui gli attivisti ambientali di Durban si oppongono ai piani di sviluppo della ricerca di gas e petrolio nei due siti in alto mare al largo della costa di Durban, uno a 62 chilometri al largo di Richards Bay, l’altro a 65 chilometri al largo di Port Sheptsone.
Questa volta gli attivisti stanno “giocando” d’anticipo, concentrando i propri sforzi a contrastare per vie legali l’autorizzazione concessa dal Dipartimento Risorse Minerarie sudafricano a Eni e Sasol, attraverso la presentazione di 47 ricorsi, che sono stati raccolti in un documento di 331 pagine e che includono tra i ricorrenti la South Durban Community Environmental Alliance, ma anche altre realtà come la South African Association for Marine Biological Research e la fondazione Wild Oceans.
I ricorsi si fondano su motivazioni sostanziali, quali la ristrettezza dell’ambito di applicazione della valutazione di impatto ambientale (VIA), la limitata valutazione dei rischi e delle conseguenze di una catastrofica fuoriuscita di petrolio, la mancata considerazione degli impatti dei cambiamenti climatici e delle ricadute socio-economiche sull’ecologia marina e sul patrimonio culturale; ma anche su motivazioni procedurali, quali la totale inadeguatezza del processo di partecipazione pubblica. A questo proposito, le comunità costiere denunciano di essere state escluse dalle consultazioni, che si sarebbero concentrate sulle aree di Richards Bay, Durban e Port Shepstone, che non rappresentano l’intera linea costiera del KwaZulu Natal. Inoltre, il periodo di tempo concesso per commentare il progetto di VIA è stato considerato insufficiente se si tiene conto del fatto che i documenti erano stati inizialmente pubblicati solo in inglese, e solo online, con un accesso a internet ancora limitato in molte delle comunità coinvolte.

Tra i ricorrenti ci sono anche gli avvocati ambientali Adrian Pole e Kirsten Youens, che hanno presentato il loro ricorso dettagliato per conto della fondazione Wild Oceans, contestando l’approccio delle compagnie, le quali, basandosi sui risultati della modellizzazione delle fuoriuscite di petrolio da loro commissionata, hanno sostenuto che la possibilità di un simile evento in caso di scoppio di un pozzo sia improbabile e, se pure si dovesse verificare, le conseguenze sarebbero risibili. I consulenti di Wild Oceans hanno però ottenuto tre revisioni della VIA da parte di esperti internazionali, compresa la critica della modellizzazione delle fuoriuscite di petrolio e la valutazione dei rischi e degli impatti. Questi tecnici indipendenti avvertono che l’esplorazione offshore in alto mare è una nuova frontiera per l’industria petrolifera e del gas oltre al fatto che si prevede che la frequenza delle esplosioni in mare aperto sia maggiore nelle zone profonde ad alta corrente. Inoltre una risposta molto rapida agli eventi catastrofici sarebbe quasi impossibile.
Gli esperti interpellati da Wild Oceans fanno anche notare che i consulenti delle aziende non avrebbero preso in considerazione importanti informazioni sul comportamento del petrolio fuoriuscito da tali profondità, che sono state ottenute negli ultimi dieci anni proprio “grazie” all’incidente della Deepwater Horizon. In sintesi, una natura obsoleta del modello utilizzato nella VIA e i suoi pregiudizi applicativi potrebbero avere un impatto enorme sulla valutazione delle previsioni petrolifere e degli impatti sulla linea di costa del KwaZulu Natal.

Descalzi, invece che liquidarli con una scrollata di spalle, avrebbe dovuto piuttosto ringraziare questi 47 ricorrenti. Sì, perché se Barbara Creecy, ministra dell’Ambiente, delle foreste e della pesca del Sudafrica, dovesse mai scegliere di riconsiderare la decisione presa e mettere le aziende in condizione di riflettere adeguatamente sui rischi reali che si corrono, sarà solo merito dell’iniziativa degli attivisti e dei loro timori di una nuova tragedia come quella della Deepwater Horizon.

Resta aggiornato, iscriviti alla newsletter

Iscrivendoti alla newsletter riceverai aggiornamenti mensili sulle notizie, le attività e gli eventi dell’organizzazione.


    Vai alla pagina sulla privacy

    Sostieni le attività di ReCommon

    Aiutaci a dare voce alle nostre campagne di denuncia

    Sostienici