Eni e il petrolio in Basilicata: le concessioni scadute da un anno sono in un limbo

Centro Olio Viggiano, foto © Re:Common, marzo 2018

[di Luca Manes] pubblicato su Altreconomia.it

È passato un anno e il rinnovo delle concessioni petrolifere di Eni in Basilicata continua a rimanere in un singolare limbo amministrativo. Le autorizzazioni per sfruttare i giacimenti sulla terraferma più ricchi d’Europa, in Val d’Agri, sono infatti scadute il 26 ottobre 2019.

L’impasse negoziale ruota attorno alle richieste economiche della Regione che vorrebbe 80 centesimi di euro per ogni barile di petrolio, come concordato nel 2019 con la Total, altra multinazionale petrolifera presente in Lucania alla quale è in capo l’impianto di Tempa Rossa. Eni -che in Val d’Agri produce circa 75-80mila barili di petrolio al giorno, scesi anche a 40mila in alcuni frangenti del 2020 a causa della pandemia, ma che in base alle concessioni può arrivare fino a 104mila- non ne vuole sapere. Il ministero dello Sviluppo economico (Mise), cui formalmente spetta il rinnovo, finora non è riuscito a mediare. Così lo scorso settembre il governatore della Basilicata Vito Bardi ha scritto al governo, sollecitandolo a sbloccare la situazione. Lo Stato, tramite il ministero dell’Economia, detiene il 30% delle azioni di Eni. Una quota rilevante che permette all’esecutivo di decidere i vertici dell’azienda e incamerare un dividendo di oltre un miliardo di euro l’anno.

“Purtroppo a noi lucani non è stata data alcuna informazione delle riunioni dell’Ufficio minerario nazionale, organo deputato anche a decidere sulle modifiche del programma dei lavori della società petrolifera. Questa circostanza evidenzia ancora una volta che intorno alla questione petrolio non c’è la giusta trasparenza e informazione”, spiega Giovanna Bellizzi, presidente dell’associazione Mediterraneo no triv.

Un’altra vicenda direttamente connessa al rinnovo della concessione Val D’Agri è lo smaltimento dei reflui petroliferi. Il progetto Eni-Rewind, società che è subentrata alla Syndial, promette di trattare le acque di produzione con un nuovo impianto da collocare a Viggiano in Contrada Le Vigne. Il progetto però è stato contestato duramente dalle associazioni ambientaliste e ha avuto, fino ad oggi, il parere negativo della soprintendenza. Anche lì si registra uno strano arresto del procedimento senza che intervenga il rigetto oppure l’approvazione. “Stranezze tutte lucane che hanno indotto Mediterraneo no triv a rivolgersi al difensore civico”, aggiunge Bellizzi.

In attesa di novità sul fronte negoziale, Eni continua a produrre e a promuovere iniziative sul territorio come il negozio “Io sono lucano” che, come si legge nel comunicato scritto per l’occasione, è “un marchio collettivo ideato da Coldiretti Basilicata” insieme a Eni e consiste in una vetrina con il meglio della produzione agroalimentare della Basilicata: dai cereali, alla carne, per proseguire poi con latte, olio, vino, ortofrutta, erbe officinali e miele. Una iniziativa che non riesce a coprire la complessità dei problemi del territorio, come l’inquinamento denunciato a più riprese da associazioni e reti come Cova ControOsservatorio Val d’Agri e Mediterraneo No Triv ma troppo spesso “derubricato” anche dalle istituzioni preposte ai controlli.

A dicembre 2019 l’Osservatorio Val d’Agri ha conteggiato il centodecimo “non-incidente” in nove anni. “Per ore si sono sentiti strani rumori e odori nauseabondi provenire dal Centro olio, senza una pronta reazione delle autorità locali”, spiega Camilla Nigro dell’Osservatorio Val d’Agri. “I problemi maggiori che si ripetono continuamente riguardano soprattutto gli idrocarburi non metano che superano anche di quattro volte il vecchio limite di legge”, continua Nigro, che sottolinea le criticità dell’operato dell’Arpab, l’ente regionale di controllo ambientale costantemente in ritardo nel fornire i dati sulla situazione della Val d’Agri. Il ruolo controverso dell’Arpab è emerso anche nei processi attualmente in corso a Potenza e che vedono imputati Eni e i suoi manager locali. Il primo, il cosiddetto “Petrolgate”, è incentrato sulle accuse di smaltimento illecito dei reflui petroliferi per i quali sarebbero stati falsificati i codici CER (Catalogo europeo dei rifiuti). Il procedimento è ormai alle battute finali e una sentenza di primo grado è attesa entro la fine del 2020. Il secondo, relativo al disastro ambientale legato alla fuoriuscita di 400 tonnellate di petrolio dal Centro olio nel 2017, è stato aggiornato al settembre del prossimo anno.

L’emergenza legata alla diffusione del Covid-19 sta avendo impatti anche sul comparto petrolifero, soprattutto per quanto riguarda l’indotto. Recente è una protesta tenutasi davanti ai cancelli del Centro olio di Eni per chiedere il rispetto del “patto” di sito, che di fatto prevede la conservazione dei posti di lavoro delle società sub-appaltanti. Le note dolenti non mancano, il tutto in un clima di vacatio amministrativa a causa del nodo delle concessioni.

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