ENI, dov’è il piano B?

La più importante multinazionale italiana, ancora partecipata dallo Stato al 30 per cento, non ha un piano B per confrontarsi con le gravi crisi in atto nel nostro Pianeta. 

Questo è il messaggio che avremmo voluto esprimere di persona come azionisti critici ai componenti del consiglio di amministrazione e agli investitori in occasione dell’assemblea degli azionisti dell’Eni, che si tiene oggi a porte chiuse nella sede romana della compagnia. 

L’emergenza Covid-19 sta provocando una crisi economica devastante e un crollo del prezzo del petrolio senza precedenti; l’Eni si è fatta trovare impreparata, perché non è riuscita a ripensare il suo business e ad abbandonare gli obsoleti combustibili fossili, responsabili di una crisi climatica che sta già presentando un conto molto salato.

Continuare a ricercare giacimenti di petrolio e gas negli angoli più sperduti e incontaminati del Pianeta, estraendo fino all’ultimo barile, è una scelta sconsiderata soprattutto nel lungo termine.

Ma, come dimostrano le inchieste e processi in corso sui casi Nigeria (OPL245) e Repubblica del Congo per presunta corruzione e quelli per disastro ambientale e traffico illecito di rifiuti pericolosi in Basilicata, la società sembra avere una visione solo di breve termine al pari del governo, che non ha esitato a confermare per altri tre anni l’amministratore delegato Claudio Descalzi, direttamente coinvolto nei casi Nigeria e Congo. Solo tre giorni prima del rinnovo del mandato di Descalzi, la Security and Exchange Commission (SEC) americana, che supervisiona le attività di Wall Street, ha inflitto all’Eni una sanzione di 25 milioni di dollari, a seguito del patteggiamento sulle presunte tangenti pagate dall’allora controllata Saipem in Algeria.

Di fronte all’incapacità della politica di controllare la società e renderla responsabile nei confronti dei cittadini, non resta che organizzarsi in solidarietà con le comunità impattate, come in Basilicata, per fare giustizia sulle devastazione del petrolio e gas e limitare il più possibile la loro espansione. L’incidente dello scorso 4 maggio proprio al Centro Olio Val d’Agri, ammesso dalla stessa Eni, conferma questo bisogno urgente. 

“Anche in questa fase così delicata, l’Italia a causa dell’Eni dipende dall’import di petrolio e gas, da dittatori di mezzo mondo e da congiunture internazionali sempre più sfavorevoli” ha dichiarato Antonio Tricarico di Re:Common.“Con il suo business così fallimentare a lungo termine, L’Eni ci porta a fondo. Non abbiamo un pianeta B: è giunto il momento di mettere da parte chi intralcia una ripresa economica che sia giusta e sostenibile” ha concluso Tricarico.

A fine febbraio, l’Eni ha annunciato investimenti per 32 miliardi nei prossimi 4 anni, di cui l’87% in combustibili fossili, con l’obiettivo di aumentare ancora la produzione di petrolio e gas del 3,5% annuo fino al picco di produzione del 2025. Il tutto in barba a ogni impegno di riduzione per affrontare la crisi climatica. Di fronte al tracollo del prezzo del petrolio, l’Eni ha ridotto del 70% la quota parte degli investimenti per il 2020. Ma la speranza è di non cancellare i nuovi investimenti in petrolio e gas, ma solo rinviarli.

Allo stesso tempo Eni ha comunicato che al 2050 ridurrà dell’80% le emissioni di anidride carbonica collegate al suo business. Per farlo, però, ricorrerà ampiamente a tecnologie oggi non realizzabili su grande scala, quali la cattura del carbonio, o con progetti di preservazione delle foreste che compenserebbero in modo artificiale le nuove emissioni di Eni.
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