Pubblicato su Nigrizia.it
È una delle opere infrastrutturali più grandi progettate in Africa. Ma anche una delle più contestate. L’oleodotto EACOP (East African Crude Oil Pipeline) con i suoi 1.443 chilometri di tubature taglierà in due l’Uganda, partendo dal distretto di Hoima, e la Tanzania, dove termine la sua corsa nel porto di Tanga. Una volta realizzato, sarebbe la più grande pipeline riscaldata al mondo.
Gli impatti ambientali sono devastanti. A rischio altissimo la riserva naturale ugandese delle cascate Murchison, nei cui pressi sarà estratto l’oro nero per una produzione a pieno regime di ben 216mila barili al giorno. Ma tutta l’area del lago Alberto è in pericolo. I principali giacimenti sono due: Kingfisher, gestito dalla China National Offshore Oil Corporation Ltd (CNOOC Ltd), e il Tilenga, in capo alla francese Total. Altrettanto rilevanti le conseguenze negative sulle popolazioni locali.
Per saperne di più, abbiamo parlato tramite una piattaforma digitale con attiviste e attivisti che si battono contro la costruzione dell’oleodotto. Un primo elemento che spicca è la situazione sul campo, a dir poco tesa.
I nostri interlocutori ci hanno espressamente chiesto di non menzionare i loro nomi e quelli delle organizzazioni di cui fanno parte, per non mettere a rischio se stessi e altre persone coinvolte nel fronte anti-EACOP. Già in questa fase la repressione dei governi locali, coinvolti nel progetto, è durissima.
Alcuni attivisti sono stati arrestati in varie occasioni – l’ultimo caso è di questi giorni – e anche una giornalista italiana, Federica Marsi, è stata fermata mentre con l’attivista Maxwell Atuhura si stava recando a incontrare le comunità di Buliisa, in Uganda. Non è improprio definire militarizzate da parte delle forze di sicurezza pubbliche e private le aree oggetto di interventi infrastrutturali.
Compensazioni inadeguate
Come ci viene chiarito, EACOP è ancora in una fase di sviluppo. Sono in corso le prospezioni petrolifere, ma non è stato ancora posato un tubo. Ciò non toglie che sia in atto la fase più cruciale dal punto di vista delle compagnie, con le compensazioni da pagare alle comunità locali che dovranno cedere le terre dove passerà l’oleodotto.
Questo è assolutamente uno dei nodi del contendere, perché le somme di denaro offerto, a detta degli attivisti, sono inadeguate e per solo una parte degli appezzamenti di terreno. Si arriverà al paradosso che numerosi contadini non avranno accesso a parte delle loro terre perché saranno divise dalle tubature.
Un “inconveniente” che non sembra suscitare le preoccupazioni del consorzio costruttore, che però ha già chiesto ai diretti interessati di smettere di impiegare le terre di loro proprietà. Quindi le prime ricadute dell’opera, sebbene ancora sulla carta, ci sono di fatto già stati. Il potere negoziale delle comunità è ridotto al minimo, per ora chi non vuole desistere si rifiuta di comunicare gli estremi bancari dove dovrebbero essere trasferiti gli importi relativi alle compensazioni.
A fare il lavoro “sul campo” per conto di CNOOC e Total ci pensa la società locale Atacama, composta quasi esclusivamente da ex-funzionari governativi, e già accusata da più parti di numerose violazioni dei diritti umani.
Dal 2018, quando è iniziata la gestazione dell’EACOP, fino ad oggi, le informazioni fornite sia dalle compagnie che dai governi sono ridotte all’osso, ci spiegano gli attivisti. Un’opacità che non fa che penalizzare ulteriormente la popolazione locale. Tuttavia anche il poco denaro che dovrebbe essere pagato rischia di avere un effetto negativo sugli equilibri dell’area.
Le donne, ci dicono, sono quelle che lavorano di più la terra. Qualora questa dovesse venire a mancare in maniera definitiva si ritroverebbero fortemente penalizzate, con il pericolo di essere abbandonate dai mariti, i quali come proprietari saranno gli unici destinatari delle compensazioni. Un vero e proprio sconquasso sociale di cui nessuno tiene conto, né i promotori del progetto, né i finanziatori. L’opera costerà almeno 3,5 miliardi di dollari.
Interessi italiani
La buona notizia sul fronte italiano è che la banca italiana UniCredit ha già fatto sapere di non voler sostenere EACOP, la cattiva è che ci sarà lo stesso un pesante tocco di tricolore. Saipem e Nuovo Pignone parteciperanno alla costruzione della raffineria, mentre anche la Bonatti sarà probabilmente destinataria di una commessa, da capire se anch’essa sul fronte estrattivo o – peggio ancora – per la posatura dei tubi, suo core business.
Il tutto rischia di essere garantito da SACE, agenzia pubblica di credito all’esportazione, vista la partecipazione delle società italiane, come rivelato durante la puntata di Presa Diretta “Petrolio, il tempo perduto”. Insomma, soldi pubblici per l’ennesimo scempio ambientale nel Continente africano.
Questa intricata vicenda deve varcare il più possibile i confini africani. È quanto chiedono gli attivisti, che durante la conversazione con noi lanciano un vero e proprio grido d’aiuto, affinché il pubblico europeo si interessi della vicenda e denunci il più possibile la condotta dei governi locali. Squarciare il silenzio che avvolge la storia dell’EACOP è un primo passo per provare a bloccare l’opera, che anche in termini effetti nefasti sul clima si preannuncia tra le peggiori dei prossimi anni.