Delta del Niger, a un anno dal rapporto Onu non è cambiato nulla

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[di Luca Manes, pubblicato sul Manifesto del 7 agosto 2012]

È passato un anno dall’illuminante rapporto dell’agenzia delle Nazioni Unite che denunciava le nefandezze della Shell nelle località del Delta del Niger abitate dagli Ogoni e chiedeva alla oil corporation un maxi risarcimento per porre rimedio alle devastazioni ambientali perpetrate negli ultimi decenni. La situazione sul campo non è mutata. Il gigante petrolifero ha fatto ben poco per porre rimedio ai suoi errori. L’inquinamento dovuto al gas flaring non si è placato, gli sversamenti di greggio sono continuati al ritmo di oltre uno ogni due giorni. E il governo di Abuja non si è certo dannato l’anima per fare pressioni sui vertici della Shell per mutare lo status quo. Gli Ogoni sono sempre più stanchi di aspettare che qualcosa cambi in positivo. Hanno quindi deciso di inscenare una protesta pacifica quanto incisiva, sulla scorta degli insegnamenti del loro storico leader Ken Saro-Wiwa, trucidato nel 1995 per volere del governo dittatoriale di Sani Abacha proprio per la sua lotta non violenta contro le ripetute violazioni dei diritti delle comunità del Delta.

Il presidente del Movement for the Survival of the Ogoni People (MOSOP) Ben Naanen ha annunciato che per mettere pressione sulle autorità saranno occupati numerosi punti nevralgici e impianti petroliferi della regione, dalle raffinerie al petrolchimico di Port Harcourt. Un’azione simile determinò la “cacciata” della Shell dalle comunità Ogoni nel 1993. Naanen ha sottolineato come in prima fila con il MOSOP ci saranno anche molte altre organizzazioni della società civile del Delta del Niger.

La totale o parziale paralisi del comparto estrattivo, il più importante di tutto il Paese, potrebbe provocare una reazione da parte della ministra per le Risorse Petrolifere Diezani Alison-Madueke, la quale lo scorso agosto aveva promesso che il governo federale avrebbe prontamente applicato le raccomandazioni del rapporto e istituito una commissione ad hoc per verificare gli impatti sul campo. Una bella dichiarazione d’intenti, cui non hanno fatto seguito delle azioni concrete. O meglio, solo nelle ultimissime settimane è stata messa in piedi un’entità – la Hydro-Carbon Pollution Restoration Project – che però per molti attivisti sembra più un tentativo in extremis di bloccare le proteste e non un reale strumento per la bonifica del territorio. In teoria il nuovo organismo dovrebbe permettere una reale partecipazione delle comunità impattate, ma i dettagli in proposito sono quanto mai nebulosi.

Il documento redatto dagli esperti delle Nazioni Unite riteneva indispensabile degli interventi immediati e massicci, tanto da quantificare in cinque anni la pulizia delle aree contaminate e di fino a 30 anni il lasso di tempo necessario per ripristinare le foreste di mangrovie, gli specchi d’acqua e le aree umide violentate dall’estrazione dell’oro nero. Nodale la questione dei fondi, indispensabili per realizzare le operazioni di bonifica. Per l’Onu serve un primo stanziamento da parte della Shell e dell’esecutivo nigeriano di almeno un miliardo di dollari, ma nell’opinione degli esponenti di Environmental Rights Action, la più importante Ong dell’area, per mondare l’intero Delta del Niger dalle sozzure del petrolio ci vorrebbero almeno 100 miliardi.

Non bisogna infatti dimenticare che il rapporto delle Nazioni Unite si è concentrato solo su una porzione degli stati della Nigeria meridionali dove sono attive le multinazionali petrolifere occidentali, tra cui anche l’italiana Eni. Il problema è molto esteso e non appare destinato a migliorare, finché le compagnie non muteranno la loro condotta.

 

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