[di Giulia Franchi e Fabio Neri]
Non ce ne vogliate, ma questa volta ci siamo presi un po’ di tempo per esprimere un commento sull’intervista a tutta pagina rilasciata a Fabio Tamburini dall’amministratore delegato dell’ENI Claudio Descalzi, pubblicata sul Sole 24 Ore di venerdì 18 ottobre.
Un paginone denso e fitto, sapientemente strutturato per raccontare, riaffermare e sottolineare “l’eccellenza italiana”, il “campione nazionale”, le speranze, le aspettative e le ambizioni di quei bravi ragazzi fortunati di cui parla Descalzi riferendosi alla società che ha l’onore di rappresentare.
L’intervista è così densa che c’è l’imbarazzo della scelta su che cosa esprimere il nostro parere.
Potremmo entrare direttamente in dialettica sul modello industriale innovativo descritto dal dottor Descalzi, che punta sull’esplorazione e il successivo auto-finanziamento della società tramite la cessione di quote di partecipazioni una volta scoperti i giacimenti e consolidati i contratti di estrazione. Potremmo per esempio chiedergli se questo auto-finanziamento abbia nulla a che vedere con l’eventuale fiscalità agevolata garantita dai paesi in cui sono registrate le società controllate dall’ENI che poi operano le cessioni. Ma non lo faremo.
Oppure potremmo tornare sullo stupore suscitato dall’annuncio delle intenzioni di ENI di ambire a definire nel 2030 le proprie attività estrattive ad emissioni nette “zero”. E quindi al “nuovo” Descalzi che, dismessi i panni del petroliere, ora viaggia in Africa con lo scopo di sensibilizzare i Presidenti di Mozambico, Angola e Repubblica Democratica del Congo parlando dei “crediti ambientali” come della nuova frontiera della sostenibilità, mentre altro non sono che la solita vecchia licenza di distruggere mascherata di buonismo. Ma ne abbiamo già parlato qui, oltre che, più lungamente, sull’ultimo numero della rivista Jacobin, e quindi eviteremo di ripeterci per non annoiare noi stessi e chi ci legge ancora con piacere.
Però, per restare sul tema, potremmo alleggerire il tutto con una nota di colore, limitandoci a far presente al dottor Descalzi che a fare il “petroliere verde” perde un po’ in mordente e fermezza, oltre che in credibilità. Mica come il suo omologo di Shell Ben van Beurden, che non mena il can per l’aia e ammette a chiare lettere che la crisi climatica non è affare suo, come invece sono l’oil&gas, che resteranno core business della oil major da lui amministrata finché morte non li separi. La sincerità paga. Sempre.
Potremmo anche scegliere di concentrarci su una sottile ma necessaria precisazione sul tema che riguarda l’accusa di corruzione internazionale a carico dell’ENI e del dottor Descalzi in persona, oggi imputati presso il Tribunale di Milano nello storico processo OPL 245. In un rapido passaggio dell’intervista in questione, l’amministratore delegato, negando qualunque errore commesso in Algeria e Nigeria e dichiarandosi come sempre molto tranquillo, dice, in modo neutrale ed en passant, che il Dipartimento di Giustizia USA in riferimento alle accuse di corruzione per la multinazionale italiana, “dopo anni di indagini ha deciso di non avviare alcun procedimento”. Pur rischiando di apparire i soliti detrattori, e solo per completezza di informazione, vorremmo ricordare al dottor Descalzi che forse per distrazione ha omesso di dire che sulla storia della chiusura delle indagini in USA l’ENI è incappata in una sonora figuraccia ed è stata bacchettata pubblicamente dal Dipartimento di Giustizia stesso, che ha descritto come “fuorviante qualsiasi riferimento da parte dell’azienda a una chiusura del procedimento dovuta a una mancanza di prove”. Le stesse autorità a stelle e strisce hanno precisato che l’indagine può essere riaperta se le circostanze cambieranno.
Invece, questa volta, scegliamo di commentare l’ultimo paradosso di cui ENI ci fa spettatori e cioè che “i rifiuti sono il petrolio del futuro”. Non è certo un caso, secondo noi, che si usi questo termine di paragone.
Mentre a livello planetario (eccetto van Beurden di Shell), ci si pone il problema dell’uscita dal fossile per la produzione di energia, ENI rilancia con “bio”carburanti da plastiche non riciclabili e frazione organica da raccolta differenziata. Mentre cioè si parla di de-carbonizzazione e di produzione/consumo plastic-free, il cane a sei zampe propone di industrializzare un processo di estrazione di carburante proprio dalle plastiche peggiori, presupponendo dunque che si continuerà a produrne, che queste non verranno riciclate per avere materia prima seconda, che non si riprogetteranno gli oggetti attualmente prodotti con plastiche non riciclabili, ma soprattutto che, a monte di tutto questo, si continuerà a estrarne la materia prima e cioè il petrolio.
Stesso ragionamento per la frazione organica, rispetto alla quale già oggi esiste una distorsione con la produzione di biogas, per cui ciò che conta davvero è la sua valorizzazione energetica e non, come dovrebbe, il suo riutilizzo come compost. Tant’è che spesso la qualità di quest’ultimo è talmente bassa da non poter avere alcun utilizzo possibile in agricoltura.
In un paese come l’Italia, in cui ogni anno si perdono milioni di tonnellate di suolo per errate pratiche agronomiche di tipo industriale e che per la stessa ragione ha una percentuale di sostanza organica bassissima, avremmo forse qualche dubbio su come utilizzare il compost prodotto da una buon processo di compostaggio? Perché se fosse davvero la rigenerazione dei suoli la destinazione finale dei nostri scarti alimentari, allora dovremmo mettere molta più attenzione al relativo sistema di raccolta (evitando contaminazione con altri rifiuti), al trattamento e alle tecnologie utilizzate, e quindi alla qualità finale. Ma così ancora non è, e per questo servono programmazione e soldi, da prendere ad esempio tra i 18,8 miliardi di euro di aiuti di stato veicolati nel solo 2018 nelle casse del comparto oil&gas.
Mantenendo inalterato il rapporto rifiuti/valorizzazione energetica, ENI non solo non rappresenta affatto una punta avanzata della ricerca e dell’innovazione nell’ambito del trattamento dei rifiuti, come Descalzi vorrebbe dimostrare, ma non imbocca nemmeno la giusta direzione per arrestare “le fiamme” che avvolgono la nostra casa.