Il nostro contributo per il libro “Genova per chi non c’era” edito da Altreconomia e curato da Angelo Miotto.
Le manifestazioni popolari contro il G8 di Genova del luglio 2001 hanno rappresentato senza dubbio l’apice del cosiddetto movimento no-global. Sviluppatosi a partire dalla fine degli anni ‘80 con le critiche e le proposte contro i piani di aggiustamento strutturali liberisti imposti dalla Banca mondiale e dal Fondo monetario internazionale, si è poi rafforzato negli anni ’90, fino all’”insurrezione” di Seattle del 1999. Un movimento falcidiato dalla brutale repressione di Genova e quindi progressivamente messo all’angolo politicamente dal cambio nell’agenda globale in seguito agli attacchi terroristici dell’11 settembre negli USA e dall’entrata formale della Cina nell’organizzazione mondiale del commercio, il famigerato Wto, l’11 dicembre del 2001.
In realtà, il movimento ha reagito a quella che era la dottrina Bush-Cheney della sicurezza globale portando nelle piazze centinaia di milioni di persone per protestare contro la seconda guerra del Golfo. Inoltre si era “impegnato”, e bene, per il fallimento senza precedenti del vertice di Cancun della Wto nel settembre 2003. Vittorie di Pirro però, poiché gli Usa l’Iraq l’hanno invaso e devastato per proteggere il mercato globale del petrolio avviando un ciclo di destabilizzazione nel Medio Oriente e nel Mediterraneo che continua fino al giorno d’oggi; nonché l’agenda commerciale multilaterale liberista della Wto è stata progressivamente sostituita da un multilateralismo à la carte, dove contano solo i rapporti di forza a livello bilaterale.
Tornando al G8, sin dagli anni ‘90 – in una fase in cui era tutto a guida di governi di centro-sinistra – aveva gettato le basi per la finanziarizzazione dell’economia che ha portato alla crisi dei sub-prime del 2007, diventata poi crisi finanziaria ed economica sistemica per la prima volta anche in Occidente dai tempi della seconda guerra mondiale. Solo la Cina è riuscita a schermarsi dalla crisi perché ha scommesso sull’espansione della base materiale e ha accelerato le sue incursioni nelle varie regioni del mondo alla ricerca di materie prime e di sbocchi di mercato per le proprie merci. Gli Usa hanno risposto con la creazione del G20, il nuovo club esclusivo delle economie che contano, che di fatto è stato come menar l’ultimo fendente al già precario sistema delle Nazioni Unite. Ma anche il G20 non è riuscito a risolvere i problemi che affliggono il nostro Pianeta.
In Occidente la crisi economica ha indebolito ulteriormente i movimenti sociali. Li ha portati a un ripiegamento sotto-traccia, a livello di base, nelle pratiche alternative e nelle esperienze in difesa di comunità e territori. Invece allo scoperto è emerso quello che covava da tempo sotto la cenere nel bacino del Mediterraneo, con le primavere arabe partite ad inizio 2011 dalla Tunisia e dall’Egitto, per arrivare in Siria e alla caduta di Gheddafi in Libia. Come a Genova per il movimento no-global, in pochi mesi lo scenario è cambiato e altre forze reazionarie hanno utilizzato quello spazio per prendere il potere, reprimere il dissenso o generare un ciclo di devastazione ancora senza fine, come in Siria e Libia. Tra le poche eccezioni vi è stato il movimento per la giustizia climatica, già apparso nel 2009 al vertice sul clima a Copenaghen, poi a Parigi nel 2015 dove un accordo, seppur debole, è stato pur sempre siglato e infine con le mobilitazioni studentesche dei Fridays for Future, che hanno raggiunto numeri molto maggiori delle esperienze passate. È giusto ricordare la ripresa dei movimenti femministi e decoloniali, il sorgere di quelli di solidarietà con i migranti e di alcuni movimenti studenteschi che si sono opposti alla logica di repressione e violenza.
Dalle crisi del 2011 è disceso un decennio segnato dal mantra della sicurezza, delle drammatiche migrazioni e chiusure dei paesi ricchi, fino al sovranismo e al mercantilismo economico dell’era trumpiana. Con la presidenza Xi, dal 2013 anche la Cina ha impresso una svolta reazionaria e lanciato la sua visione di globalizzazione incentrata sulla creazione di mega corridoi terrestri e marini per l’accelerazione del movimento delle merci. L’ex Regno di mezzo ha così “tentato” l’Europa, sempre più stretta tra due fuochi e dilaniata al suo interno, e la stessa finanza globale, in cerca di nuove forme di turbo-accumulazione: dalla logistica, alla gestione dei dati, alla finanziarizzazione della natura, all’automazione e alla bio-ingegneria. Oggi ci viene proposta una globalizzazione 2.0 che coniuga vecchi e nuovi estrattivismi a danno di comunità e territori, pur di dare una risposta alla crisi continua della stagnazione del commercio mondiale e la sovra-accumulazione della finanza che ha segnato il capitalismo del XXI secolo.
Arriviamo così alla pandemia globale, non prevista, ma capace di rilanciare per la prima volta un dibattito sulla necessità di deglobalizzare per ridurre rischi e ripensare il modello di sviluppo delle nostre società. Finita la paura del contagio, però, il dibattito sta sfumando.
Da questi ultimi venti anni possiamo trarre tre lezioni nevralgiche:
- Buona parte dello spazio politico creato dal movimento no-global è stato occupato progressivamente da forze di destra, che hanno intercettato la critica alla globalizzazione latente nella società e generato una nuova egemonia culturale a loro vantaggio. Solo una narrazione internazionalista può riprendersi quello spazio e contrapporsi alla destra. In tal senso la crisi dei migranti è molto emblematica.
- A Genova c’erano già i germi della crisi della rappresentanza politica, con 300mila persone in piazza auto-organizzate e senza sindacati e partiti politici, tranne poche eccezioni, che per questo sono state brutalmente “arrestate” con la violenza nella loro ricerca di giustizia. Non è più una questione solo di legittimità del G8, ma di chi ha diritto a decidere sui territori. E forse bisogna ripartire da questa prospettiva di comunità, lentamente e senza snobbismi, facendo leva sulle forme di mutualismo nate su alcuni territori nei duri mesi della pandemia.
- Nel processo capitalista ogni crisi diventa l’opportunità per aggirare i limiti dell’accumulazione ed andare oltre. Il rischio è che succeda lo stesso con la crisi climatica. Tutto cambi purché nulla cambi. Da cui l’importanza di stare attenti alle false soluzioni, chiedendosi quale transizione ecologica e sociale è davvero trasformativa perché in grado, ben oltre le soluzioni tecniche, di mettere in discussione le strutture di potere che hanno creato la crisi.