Corruzione e oro nero

Piattaforma petrolifera. Foto ©Troy Williams, Flickr (licenza CC BY 2.0)

[di Antonio Tricarico]

Alla decima udienza del processo su corruzione internazionale che riguarda l’acquisizione da parte di ENI e Shell del mega giacimento Opl 245, la pubblica accusa ha chiamato a testimoniare Simon Taylor. Ovvero il direttore e co-fondatore di Global Witness, una delle organizzazioni che nel settembre del 2013 insieme a Re:Common hanno presentato l’esposto da cui è partita l’indagine sfociata poi nello storico processo milanese.

Prima della pausa estiva, il collegio giudicante aveva respinto la richiesta delle tre associazioni denuncianti di costituirsi come parti civili al processo – una decisione quanto meno discutibile, ma che ovviamente rispettiamo. Così la testimonianza di Taylor è stata un’occasione non solo per ricordare i motivi che mossero cinque anni fa Global Witness, Re:Common e The Corner House a muoversi formalmente sul caso, ma anche per portare nelle aule del palazzo di giustizia di Milano uno spaccato alquanto preoccupante della gestione del settore petrolifero e l’industria estrattiva in ogni parte del Pianeta.

Dal 1993 Global Witness conduce indagini indipendenti che rivelano come la corruzione sia il collante tra elites di potere locali, spesso ben poco democratiche, e interessi all’interno di grandi gruppi e comitati d’affari. La storia della licenza Opl 245, quale emerge dagli atti della pubblica accusa al processo di Milano, ci dice che anche ampi settori della diplomazia, dell’intelligence e delle forze armate sono spesso parte del sistema delle mazzette.

In un periodo in cui si parla molto di un ritrovato ruolo dello Stato nell’economia e in particolare nelle società partecipate, rimane sempre un dubbio sul perché quando si tocca l’ENI – ancora partecipata dallo Stato per il 30 per cento – il governo sia molto parco di critiche. Certo, va bene che il vice-premier Luigi Di Maio abbia detto di voler guardare “senza fare sconti” alle recenti rivelazioni del settimanale L’Espresso sui presunti affari in Congo della moglie dell’ad di ENI Claudio Descalzi e sulle sue connessioni con dubbi intermediari e contratti elargiti dal Cane a Sei Zampe. Però questa è solo una circostanza limitata a paragone all’affare Opl 245 o alla indagine sul Congo mossa recentemente dalla stessa Procura di Milano.

Sorprende come, a differenza del caso di altre società ed altre vicende – vedi le concessioni autostradali ad esempio – fino ad oggi nessuna forza politica, e tanto meno il ministero dell’Economia, abbiano avuto il coraggio di chiedere almeno la sospensione dell’attuale ad di ENI, oggi a processo a Milano con gravi accuse di concorso aggravato in corruzione internazionale nel caso Opl 245. Global Witness ha ricordato ai giudici di Milano molti passaggi chiave della vicenda, che se confermati sarebbero di estrema gravità.

Il giustizialismo con due pesi e due misure dell’attuale governo, al pari del garantismo a geometrie variabili dei precedenti esecutivi, non fanno bene al Paese. In attesa di maggiore coerenza e di un pizzico di coraggio da parte delle istituzioni, è indubbio che senza l’azione delle organizzazioni della società civile internazionale e di pochi giornalisti liberi e determinati, oggi non si parlerebbe della corruzione sistemica che affligge il settore petrolifero, poiché il mondo politico, di qualsiasi segno esso sia, di fatto ne è tristemente soggiogato.


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