Che cosa chiederemo all’Eni all’Assemblea degli azionisti del 14 maggio

Sede dell'AGM Eni, 14 maggio 2019, foto Manes/Re:Common
Sede dell’AGM Eni, 14 maggio 2019, foto Manes/Re:Common

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Nigeria

Il 17 aprile 2019, la Commissione per i reati economici e finanziari (EFCC) della Nigeria ha ottenuto un mandato d’arresto dal tribunale di Abuja nei confronti di Roberto Casula, dal 2017 accusato in Nigeria di cospirazione e corruzione di pubblico ufficiale legato al caso OPL 245. Nel 2018, i media hanno riferito che Casula ha preso un congedo dal suo ruolo di Responsabile Sviluppo, Operations & Technology di Eni. Casula è attualmente sotto processo a Milano per la vicenda OPL 245, oltre che indagato nell’ambito della nuova inchiesta per corruzione internazionale in Congo.

In base a questi fatti, Re:Common chiede al board dell’Eni quale sia il ruolo che Casula ricopre all’interno della società e quale processo abbia seguito il consiglio di amministrazione di Eni per valutare se Casula debba essere formalmente sospeso o se nei suoi confronti debba essere intrapresa qualsiasi altro tipo d’azione.

Inoltre nel corso del suo esame presso il Tribunale di Milano il 19 dicembre 2018, sempre nell’ambito del processo OPL 245, il consigliere dell’Eni Karina Litvack ha dichiarato che il presidente del consiglio di amministrazione, Emma Marcegaglia, in una riunione del 29 aprile 2015, aveva comunicato a tutti i membri del consiglio di amministrazione che, alla luce delle tensioni createsi sull’implementazione delle politiche anti-corruzione della società per le posizioni portate avanti dalla stessa Litvak e dall’ex consigliere Luigi Zingales, la sopraveniente revisione del funzionamento del consiglio di amministrazione “offrisse l’occasione perfetta per mandare un messaggio forte a… Zingales: è arrivato il momento che se ne vada”.

Re:Common intende sapere dalla presidente Marcegaglia se ha veramente fatto una tale dichiarazione e, in caso affermativo, se essa è compatibile con i principi etici di Eni e con l’approccio di tolleranza zero contro la corruzione. Dopo che la Litvack ha rivelato pubblicamente tale posizione da parte del presidente del consiglio di amministrazione, è stato effettuato un audit interno sulla governance del consiglio di amministrazione? In caso affermativo, quale organo ha effettuato l’audit e quali misure sono state adottate per evitare qualsiasi conflitto di interessi?

Repubblica del Congo

In data 13 aprile 2017, in occasione dell’Assemblea degli Azionisti, in risposta a una domanda relativa all’esistenza dei rapporti commerciali attuali o passati dell’Eni con la società Petro Services, riconducibili all’imprenditore Alexander Haly, la presidente Marcegaglia dichiarò: “ad oggi, non ci sono legami contrattuali con Petro Services in Congo”. Il 9 maggio 2018, con la pubblicazione dell’articolo “Bugia sugli strani affari in Congo, l’imbarazzo dei vertici ENI” sul Fatto Quotidiano del 9 maggio 2018, sono emerse importanti rivelazioni su un rapporto commerciale di lunga data tra la Petro Services e l’Eni.

Il 10 maggio 2018, sempre in Assemblea degli Azionisti, Re:Common ha chiesto spiegazioni sul perché Eni non avesse rivelato l’entità dei suoi rapporti con la suddetta società nell’esercizio precedente, valutando in tal modo come fuorvianti le risposte date da Eni ai propri azionisti sui rapporti con le società di Haly. Il Presidente, Marcegaglia, ammettendo che le informazioni da lei fornite agli azionisti nell’anno precedente erano incomplete a causa di un errore commesso durante la fase di lettura, ha confermato l’esistenza di relazioni d’affari (conclusesi un paio di mesi prima) con Petro Services, la società di proprietà di Alexander Haly, per un ammontare di circa 104 milioni di dollari.

Il 10 marzo 2019, è uscita una nuova indagine di Paolo Biondani sull’Espresso, in cui c’era il seguente passaggio: “….tra i membri del giacimento petrolifero che è al centro del presunto scambio di tangenti tra l’Italia e il Congo c’è il solito Haly. Che ora sembra avere un ruolo più chiaro: è l’amministratore e proprietario delle società africane che sarebbero state create, via Cipro e Lussemburgo, dalla signora Ingioba Descalzi, moglie dell’attuale ad della società. In breve, Alexander Haly, amministratore delegato di una delle aziende partner commerciali dell’Eni sarebbe, secondo l’inchiesta dell’Espresso, il manager di fiducia della signora Ingioba Descalzi, a cui lei stessa avrebbe trasferito il controllo di varie società africane nell’aprile 2014, poco prima della nomina del marito al vertice della compagnia. 

Alla domanda posta l’anno scorso sulla natura del rapporto tra Haly e un’altra azienda che si può far risalire alla signora Descalzi, la Elengui Limited, la Presidente Marcegaglia ha negato qualsiasi connessione. Alla luce delle informazioni emerse nel corso dell’anno, sorgono dei dubbi, che Re:Common chiede a Eni di sciogliere.

Mozambico e Sudafrica

All’Assemblea degli Azionisti di quest’anno è presente anche Ilham Rawoot dell’organizzazione Justicia Ambiental! (JA!) del Mozambico, che parlerà del ruolo di Eni nella distruzione dei mezzi di sussistenza di migliaia di persone con il progetto Coral LNG nel nord del Mozambico.

Le attività dell’Eni avranno una ricaduta notevole anche sul versante dei cambiamenti climatici – le quantità di CO2 emesse dal Mozambico aumenteranno del 9,4% solo nei prossimi quattro anni. Eni non lavora con le Ong locali indipendenti e ha previsto delle misure di compensazione inadeguate per le comunità colpite. Eni non è presente solo in Mozambico, ma anche in Sudafrica, dove le loro perforazioni petrolifere offshore hanno costretto migliaia di pescatori ad abbandonare le loro attività in mare.

Riforestazione

Eni sta progettando di piantare 8,1 milioni di ettari di alberi esotici in Mozambico, Sudafrica, Ghana e Zimbabwe quale “compensazione” per i cambiamenti climatici.

Le foreste sono cruciali per il pianeta al fine di assorbire in maniera naturale le emissioni di carbonio, ma le piantagioni non svolgono questa funzione nella stessa misura. Affrontare davvero la crisi climatica significa raggiungere emissioni “zero” lasciando i combustibili fossili nel sottosuolo e non solamente emissioni “nette zero”, il che permette invece a chi inquina come Eni di continuare a farlo con il pretesto che si possono usare piantagioni artificiali per “succhiare” il carbonio dall’aria. Non c’è alcuna sicurezza che le piantagioni di alberi possano garantire la compensazione del carbonio a lungo termine e non potranno mai compensare la distruzione del mondo naturale.

Questa nuova strategia, che Eni porta avanti insieme a Shell, non è solo un espediente per il greenwashing, ma una tattica pericolosa che potrebbe esacerbare i problemi causati dallo sfruttamento dei combustibili fossili. Per questo una dichiarazione promossa da 7 organizzazioni e sostenuta da 108 organizzazioni provenienti da ogni angolo della terra è stata resa pubblica questa mattina, e consegnata agli uffici di Eni e all’ambasciata italiana a Maputo.

“Eni sta usando una scorciatoia per cercare di mitigare le sue massicce emissioni di carbonio e con il progetto di riforestazione sta creando ancora maggiore ingiustizia climatica. Riforestare non vuol dire solo piantare alberi, potrebbe voler dire portare via terreni agricoli, case e biodiversità di cui gli animali, le piante e le persone hanno bisogno per sopravvivere.”

-Ilham Rawoot JA!/ FOE Mozambico

Per scaricare il documento: https://docs.google.com/document/d/1ooA6VfIDTPKSWO9NEylfq_5DARgsM9alrWV3jAcTERg/edit

Basilicata

Re:Common sostiene gli interventi e le domande degli esponenti della società civile lucana che saranno presenti in assemblea, soprattutto alla luce del recente nuovo fronte giudiziario che fa seguito allo sversamento nel 2017 di oltre 400 tonnellate di petrolio presso il Centro Olio di Viggiano (Cova), in Val d’Agri. Lo scorso 23 aprile Enrico Trovato, un dirigente dell’impianto al tempo dei fatti, è stato arrestato. Trovato è una delle tredici persone fisiche sotto indagine insieme all’Eni con l’accusa di disastro, disastro ambientale, abuso d’ufficio e falso ideologico. Coinvolti anche i rappresentanti del Comitato tecnico regionale, organo dell’amministrazione pubblica che avrebbe dovuto vigilare sulle operazioni del Cova, in quanto impianto a rischio di incidente rilevante.

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