Amnesty International Italia e Re:Common intervengono all’Assemblea generale degli azionisti di Eni

Il palazzo dell'Eni a Roma - foto Re:Common
Il palazzo dell'Eni a Roma - foto Re:Common

Il 10 maggio, Amnesty International Italia e Re:Common prenderanno parte all’Assemblea generale degli azionisti di Eni.

Nell’ambito delle attività di azionariato critico condotte nei confronti dell’azienda petrolifera italiana, le associazioni interverranno in Assemblea generale per presentare agli azionisti e alla stessa azienda le rispettive preoccupazioni e raccomandazioni: Amnesty International Italia in merito ai casi di impatto delle attività petrolifere sull’ambiente e i diritti umani in Nigeria; Re:Common in merito ai casi di corruzione in Nigeria, Iraq, Algeria e Kazakistan.

Di seguito due brevi briefing sui temi trattati dalle associazioni e i principali punti su cui si chiede un chiarimento all’azienda.

Petrolio e diritti umani nel delta del Niger, Nigeria – Amnesty International Italia

L’industria del petrolio nell’area del delta del fiume Niger, in Nigeria, vede coinvolti sia il governo nigeriano che le aziende controllate da grandi multinazionali, quali Shell, Eni e Total, oltre ad alcune società nigeriane.

Amnesty International da anni conduce ricerche sull’impatto che l’industria petrolifera ha sui diritti umani nella zona e, dal 2009, attraverso la campagna globale (((Io pretendo dignità))) è impegnata a porre fine all’impunità delle imprese, a garantire l’accesso alla giustizia per le persone i cui diritti sono stati violati dalle aziende e ad assicurare che le comunità colpite possano partecipare alle decisioni che influiscono sulle loro vite. L’Organizzazione ha documentato una serie di gravi e sistematiche violazioni dei diritti umani direttamente collegate alle modalità operative delle industrie petrolifere. Il devastante impatto dell’inquinamento derivante dall’industria del petrolio è stato rilevato dal Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente che, nell’agosto 2011, ha pubblicato il rapporto Environmental Assessment of Ogoniland. Ulteriore conferma della disastrosa situazione in cui versa il delta del Niger è data dalla sentenza della Corte di giustizia della Comunità economica degli stati dell’Africa occidentale che il 16 dicembre 2012, nel caso Serap v. Nigeria, ha dichiarato il governo nigeriano responsabile per i gravi e ripetuti abusi perpetrati delle aziende petrolifere e sottolineato l’esigenza per il governo stesso di riportate tali società alle loro responsabilità.

Le fuoriuscite di petrolio e il gas flaring hanno contribuito a dare origine a un livello di inquinamento e a danni ambientali tali da ledere il diritto alla salute e a un ambiente sano, il diritto a un adeguato standard di vita e i diritti al cibo e all’acqua delle centinaia di migliaia di persone che vivono nel delta del Niger. Le fuoriuscite di petrolio, causate da scarsa manutenzione delle infrastrutture, problemi tecnici, sabotaggi e furti, sono frequenti e raramente rese note. Amnesty International, a seguito di un esame delle modalità di indagine che fanno seguito a tali perdite, ha rilevato numerose inadeguatezze e, in particolar modo, l’assenza di indipendenza del sistema investigativo, soprattutto con riferimento alle cause delle perdite. Nella quasi totalità dei casi, le aziende riconducono le fuoriuscite ad atti di sabotaggio ma, ad oggi, i dati relativi alle indagini condotte non sono mai stati sottoposti a una valutazione indipendente né tantomeno resi accessibili. L’unica compagnia a pubblicare i dati sulle fuoriuscite di petrolio è la Shell.

Riguardo al gas flaring, sebbene Eni rinnovi annualmente i suoi impegni di ridurre l’utilizzo di tale pratica, l’azienda non ha mai pubblicato dati comparabili ed esaustivi riferiti alla Nigeria, né informazioni relative alle valutazioni dell’impatto che tali torce hanno avuto e avranno sulla salute delle persone che vivono nelle comunità vicine alle torce.

Le ragioni alla base di quanto sopra riportato sono molteplici: il sistema normativo nigeriano è debole, le leggi che dovrebbero applicare gli standard internazionali in materia sono scarsamente applicate e le agenzie governative incaricate di farle rispettare sono spesso compromesse da seri conflitti di interessi. A ciò si aggiunge la quasi totale assenza di trasparenza relativa alla condotta delle aziende in materia di ambiente e diritti umani, in netto contrasto con quanto stabilito dalle Linee guida delle Nazioni Unite su imprese e diritti umani e dalle Linee guida dell’Organizzazione per la cooperazione e lo sviluppo economico sulle imprese multinazionali che riconoscono il valore fondamentale della condivisione delle informazioni in detta materia e chiamano le aziende a pubblicare le informazioni necessarie a tutti i loro stakeholders per comprendere l’impatto delle loro attività sull’ambiente e sui diritti umani.

Amnesty International Italia chiede all’azienda di rendere pubbliche le seguenti informazioni:

  • i dati completi e comparabili anno per anno sul gas flaring nel delta del Niger;
  • i rapporti d’indagine e i dati di ogni fuoriuscita di petrolio che avviene nelle aree in cui opera;
  • le informazioni sulla bonifica di ciascuna fuoriuscita di petrolio e sull’eventuale risarcimento alle comunità colpite;
  • le informazioni sull’età e sulle condizioni delle condutture in tutti gli impianti Eni nel delta del Niger.

Corruzione in Nigeria, Iraq, Algeria e Kazakistan – Re:Common

  1. Nel luglio 2010, l’Eni ha concordato con le autorità statunitensi (Dipartimento di Giustizia e Security and Exchange commission) di pagare una somma di 365 milioni di dollari come forma di patteggiamento per il caso di corruzione relativo all’impianto di gas liquefatto di Bonny Island, nel Delta del Niger, in cui era coinvolta la sua sussidiaria Snam Progetti Netherlands BV. L’esborso della somma è inoltre legato all’implementazione da parte dell’azienda nell’arco di due anni di un’adeguata “corporate compliance” interna e di efficaci misure anti-corruzione, sulla base di un accordo (deferred prosecution agreement) sottoscritto tra Eni e il dipartimento di giustizia degli Stati Uniti nel luglio 2010.
  2. Tuttavia, nonostante l’introduzione delle regolamentazioni richieste, come confermato dallo stesso AD Paolo Scaroni durante l’assemblea degli azionisti del 2012, sono tuttora aperti vari procedimenti per reati di corruzione legati all’attività dell’Eni. In particolare, in Iraq per l’aggiudicazione dei diritti di sfruttamento del giacimento di Zubair, per cui secondo il pubblico ministero incaricato delle indagini del tribunale di Milano il pagamento di una supposta tangente sarebbe avvenuto “intorno al 20 giugno 2011”. Ma anche in Algeria, dove la controllata Saipem è sotto inchiesta per corruzione internazionale per l’ottenimento di un contratto di 580 milioni di dollari per la costruzione di un gasdotto, per cui sarebbe stata pagata una tangente alla compagnia algerina Sonatrach di circa 180 milioni di dollari. I vertici della Saipem si sono dimessi lo scorso dicembre, mentre a febbraio le autorità giudiziarie di Milano hanno comunicato ufficialmente che lo stesso AD Scaroni è sotto inchiesta per una ipotetica tangente di 197 milioni di dollari versata fra il 2009 e il 2010 per un corposo affare dal valore di oltre 11 miliardi di dollari. Anche su un possibile caso di corruzione in Kazakistan relativo all’aggiudicazione dei contratti dell’impianto di Karachaganak e del progetto di Kashagan vede attivi gli inquirenti kazaki e italiani.
  3. Come si evince dalle date segnalate dalle autorità giudiziarie, l’Eni potrebbe aver violato normative nazionali e internazionali e il suo stesso codice anti-corruzione interno nei due anni successivi al patteggiamento per il caso di Bonny Island, in cui la sentenza era ancora pendente. Alcune vicende, come quella relativa ai contratti siglati in Algeria, sono di stringente attualità, e senza dubbio necessitano di una serie di approfonditi chiarimenti davanti all’assembla degli azionisti, ma anche presso le competenti autorità giudiziarie.
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