L’accordo di Parigi già in fumo? L’ipocrisia del G7 ed il carbone corrotto di Santo Domingo

Vertice G7 Giappone, seconda giornata dei lavori, foto Palazzo Chigi, Flickr, licenza CC BY-NC-SA 2.0

[di Antonio Tricarico]

La scorsa settimana si è tenuto in Giappone il vertice dei G7, evento che non ha più la risonanza del passato.

Alla vigilia dell’incontro nipponico, un gruppo di organizzazioni ambientaliste internazionali, tra cui il WWF, aveva sbugiardato i sette leader nella loro lotta ai cambiamenti climatici e in particolare il padrone di casa, Shinzo Abe. Nonostante l’accordo di Parigi dello scorso dicembre per limitare il riscaldamento della Terra sotto i 2 gradi centigradi, ed auspicabilmente fermandosi ad 1,5 gradi, definito da alcuni storico (ma lo sarà davvero?), alcuni paesi del G7 continuano come se nulla fosse a finanziare il carbone. Ovvero la fonte fossile più inquinante e dannosa per il clima e la salute umana.

Non solo negli ultimi otto anni i paesi del G7 hanno finanziato impianti termoelettrici a carbone con ben 42 miliardi di dollari, di cui 2,5 miliardi nel 2015, ma il Giappone ha già in cantiere investimenti sulla polvere nera a casa e all’estero per 10 miliardi di dollari. Anche la Germania, tanto virtuosa nel suo territorio, in realtà continua a finanziare impianti a carbone nei Balcani e altrove, addirittura alcuni a lignite. Una situazione paradossale, con la Cina, sempre dipinta come super-inquinante, che oggi sta riducendo il suo supporto al carbone e chiudendo miniere.

I sette leader non hanno affatto risposto alla critica nel loro comunicato finale, continuando ad incensare l’accordo di Parigi e la sua prossima attuazione. Anche il premier italiano Matteo Renzi non si è espresso in materia, nonostante la prossima presidenza del club dei paesi ricchi sarà proprio nostra e Palazzo Chigi ne definirà l’agenda.

Nel giugno 2015, agli stati generali italiani sul clima Matteo Renzi aveva definito il carbone “nemico pubblico” da combattere come prima priorità. Da allora però il governo ha fatto poco, se non nulla. Anzi dietro le quinte anche il governo italiano un po’ di carbone nel mondo l’ha finanziato. La SACE, assicuratore pubblico, oggi parte del gruppo Cassa Despositi e Prestiti a forte controllo pubblico, nel 2015 ha concesso una garanzia per 550 milioni di dollari a favore dei prestiti di cinque banche private internazionali, inclusa Unicredit, a favore della Maire Tecnimont italiana e altre società beneficiarie di un contratto per la costruzione dell’impianto a carbone di Punta Catalina nella Repubblica Domenicana. Partner della Tecnimont nell’operazione è la brasiliana Oderbrecht, per un totale di due miliardi di dollari di valore per un progetto che consterà di due gruppi a carbone per complessivi 770 megawatt di potenza. L’opera incontra da anni l’opposizione locale di organizzazioni ambientaliste e comunità locali nell’isoletta dei Caraibi. Ma non solo. Dallo scorso anno la Oderbrecht è sotto indagine in Brasile per presunta corruzione internazionale proprio nell’ambito di questo progetto. Il gigante brasiliano delle costruzioni avrebbe gonfiato enormemente i costi, per finanziare tra l’altro la rielezione del presidente Danilo Medina nell’isola caraibica.[1]

E’ singolare che, come riportato dai media di Santo Domingo, la SACE avesse in precedenza anche offerto una  garanzia superiore per l’operazione fino a 800 milioni, ma poi gran parte della torta se l’è aggiudicata la Oderbrecht, a cui nel 2014 è stato accordato un finanziamento per 656 milioni di dollari dalla Banca di sviluppo pubblica brasiliana, BNDES.[2]

 

La Oderbrecht è già finita nell’occhio del ciclone nell’ambito dello scandalo Petrobras che continua a terremotare la politica brasiliana. Lo scorso giugno l’amministratore delegato Marcelo Odebrecht è stato arrestato ed a marzo condannato a 19 anni e 4 mesi di reclusione per aver pagato 30 milioni di dollari di tangenti ad ufficiali del governo di Brasilia.[3] Ad oggi solo 200 milioni di dollari sono stati sborsati dalle banche internazionali per la costruzione di Punta Catalina, e si aspettano ancora i soldi dal Brasile.

 

Assicurare con prestiti e garanzie pubbliche nuovi progetti a carbone, in contesti di presunta corruzione, non è certo il modo migliore per onorare ed attuare l’accordo di Parigi, in Brasile come in Italia. E come spesso succede, su queste vicende Palazzo Chigi tace, dopo annunci e parole sensazionaliste. Sulla corruzione a Santo Domingo le indagini faranno il loro corso – e sarebbe bene che si guardasse a tutti gli appalti e finanziatori del progetto. Nel frattempo se ci fosse coerenza, il governo italiano dovrebbe mettere in agenda nel vertice del G7 del prossimo anno, che si terrà probabilmente a Taormina, la fine dei sostegni pubblici al carbone. Perché quanto meno un nemico pubblico non lo si aiuta con fondi pubblici, mazzette a parte.



[1]    http://www1.folha.uol.com.br/poder/2016/02/1743097-obra-da-odebrecht-na-republica-dominicana-esta-parada-e-e-criticada.shtml

[2]    http://diariohorizonte.com/brasil-tiene-los-ojos-en-construccion-odebrecht-punta-catalina/

[3]    http://g1.globo.com/pr/parana/noticia/2016/03/justica-federal-condena-marcelo-odebrecht-em-acao-da-lava-jato.html

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