La protesta globale contro la diga di Ilisu nel Kurdistan turco

stop ilisu and belo monte - foto Democracy.org
stop ilisu and belo monte - foto Damocracy.org

Rappresentanti delle comunità impattate dalle dighe e di varie organizzazioni della società civile di Sud Africa, Medio Oriente, Europa, Stati Uniti e Africa ieri hanno bloccato i lavori per la realizzazione del controverso impianto idroelettrico di Ilisu, nel Kurdistan turco.

Tra loro anche il capo indigeno Megaron Txucarramae, uno dei leader della protesta contro la diga di Belo Monte, nell’Amazzonia brasiliana. Un segnale molto importante della globalizzazione della lotta e della resistenza nei confronti dei grandi sbarramenti – non a caso uno degli striscioni apparsi durante l’azione recitava “I fiumi uniscono, le dighe dividono” – che invece di portare sviluppo economico sono causa di scempi ambientali e conseguenze nefaste sulle popolazioni locali.

Nel caso specifico di Ilisu, attualmente sono quasi 1.500 i lavoratori impegnati a far sorgere l’opera sul fiume Tigri, per un costo di 1,1 miliardi di euro. Come riferiva il New York Times alcune settimane fa, la diga è completa al 53 per cento, ma le autorità turche sono convinte di riuscire a centrare la scadenza prefissata di metà 2014.

Il celebre quotidiano statunitense ha raccontato anche della continua militarizzazione dell’area, a soli 40 chilometri dal confine con la Siria e poco più di 70 da quello con l’Iraq. E qui veniamo a uno dei punti più controversi dell’opera, ossia il pesante impatto che la diga potrebbe avere sui flussi idrici oltre i confini turchi. Nonostante le perplessità dei governi di Damasco e Baghdad, l’esecutivo di Ankara non ha rinunciato al progetto.

Una volta riempito il bacino artificiale creato dalla diga (operazione che si concluderà nell’arco di una decina di mesi), per un’estensione di 30mila ettari, saranno poi parzialmente sommersi una delle perle del Kurdistan, la millenaria città di Hasankeyf, e altri importanti siti archeologici. Ma non da meno saranno le conseguenze sulle comunità locali. Rischiano lo sfollamento almeno 55mila persone, per un totale di 200 insediamenti. Le questioni delle compensazioni e delle rilocazioni erano tra quelle più “calde” durante le trattative con le agenzie di credito all’export europee, che in proposito non hanno ricevuto le richieste rassicurazioni e garanzie dalla Turchia. Un ruolo fondamentale nella decisione delle tre agenzie lo hanno giocato anche le organizzazioni della società civile internazionali, che ormai da oltre un decennio conducono campagne in solidarietà con le popolazioni kurde contro il progetto.

A conferma di tutto ciò, va evidenziato come nell’articolo del NYT si parli dei primi nuclei familiari reinsediati e di come siano “molto insoddisfatti” delle loro nuove sistemazioni e della perdita delle terre da loro coltivate. I timori espressi in molteplici occasioni da vari soggetti trovano quindi tristemente conferma.

Guarda il video della protesta:

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