Tassonomia o frode verde?

Nelle scorse settimane si è parlato molto, finalmente anche sulla stampa italiana, di tassonomia europea, ossia dell’imponente regolamento europeo in via di approvazione che definirà quali progetti e operazioni potranno essere ritenuti verdi da banche e operatori che li finanziano.

Il rischio greenwashing

Un passaggio dovuto, visto l’abuso della verniciata di verde data oramai a ogni nuovo intervento da parte delle imprese, soprattutto nel settore energetico, di fronte all’urgenza di ridurre drasticamente le emissioni responsabili dei cambiamenti climatici. In primis di limitare quelle derivanti dalla combustione della triade dei combustibili fossili: carbone, petrolio e gas. Il rischio del cosidetto greenwashing è quindi elevato, con l’Unione Europea che potrebbe certificare come pulite e non climalteranti interventi che poco lo sono, specialmente alla luce degli ultimi sviluppi politici sul dossier. Sotto il fuoco incrociato delle lobby e di alcuni governi europei, infatti, la Commissione europea ha reintrodotto nel testo alcuni progetti a gas fossile e addirittura possibili progetti nucleari.

Ciò ha generato un braccio di ferro tra i principali paesi europei, soprattutto Francia e Germania, il primo pro-nucleare da sempre ed il secondo strenuo difensore del gas fossile come necessario nella transizione, che ha portato di fatto ad un compromesso al ribasso accettando l’inclusione di entrambi. Tra qualche giorno il testo finale dell’atto delegato sarà licenziato dalla Commissione e spetterà al Parlamento e al Consiglio europei decidere se prendere o lasciare, senza possibilità di modifica. Nell’anno passato ReCommon aveva già espresso ripetutamente la preoccupazione che soprattutto le lobby del gas fossile la potessero spuntare, riacquistando così una nuova certificata verginità verde per il loro business as usual inquinante. Retorico aggiungere che la certificazione verde della pericolosa e fallimentare tecnologia nucleare è quasi un ossimoro.

Ma che significherà in pratica la tassonomia per la transizione energetica che sta iniziando?

Chi ne beneficierà. E quanto? Guardiamo a un caso di specie in Italia, la costruzione di nuove centrali a gas fossile per rimpiazzare quelle a carbone che chiuderanno i battenti entro il 2025 secondo la strategia energetica nazionale. Nonostante le critiche di comitati locali e società civile organizzata che chiedono la chiusura definitiva delle centrali fossili e la bonifica delle zone di sacrificio di cui è disseminata l’Italia – Brindisi, Civitavecchia, Fusina, La Spezia, solo per menzionarne alcune – il governo italiano sta via via autorizzando tutti i nuovi progetti. A febbraio deciderà anche quali progetti premiare con i sussidi del cosiddetto capacity market perché ritenuti fondamentali per la sicurezza della rete elettrica nazionale.

Centrale di Monfalcone – fotogramma dal video “L’anima nera dell’Italia”.

Il caso di Monfalcone

A2A a Monfalcone chiuderà il gruppo a carbone e ha già avuto l’ok dal governo a convertire la centrale in un impianto a gas più potente, al punto che le emissioni assolute di anidride carbonica rimarranno le stesse. Secondo l’attuale testo della tassonomia europea, se l’impianto rimpiazza una centrale a carbone in una logica di uscita dall’utilizzo della polvere nera, avrà una intensità carbonica non superiore ai 270 g/KWh e utilizzerà progressivamente gas non carbonici e quindi non climalteranti quando bruciati – per esempio l’idrogeno – fino allo switch totale nel 2035, allora può essere considerato verde. Nello studio di impatto ambientale del progetto A2A dichiara emissioni di CO2 per 320 g/KWh, ma apre da subito alla possibilità di usare il 30 per cento di idrogeno con la nuova turbina, riportando nel limite “verde” le emissioni, e progressivamente aumentare questo combustibile con alcune modifiche all’impianto. Così tecnicamente A2A potrebbe emettere “bond verdi” sul mercato dal rendimento minore di quelli “sporchi” sul mercato per investitori assettati di dimostrare che finanziano solo la sostenibilità. In pratica l’utility lombarda potrebbe più facilmente finanziarsi sul mercato e teoricamente andare avanti con il suo progetto anche in assenza di sussidi pubblici. Tutto bene? Non pensiamo proprio. In primis perché nel 2025 partirebbe una centrale a gas fossile tradizionale che emetterebbe in assoluto la stessa quantità di CO2 di quella a carbone che chiude. Con una piccola iniezione di idrogeno la società rientrebbe nel limite dei 270 g/KWh – troppo elevato come denunciato dalla società civile che chiede limiti più bassi – e continuerebbe per parecchi anni in questo modo il suo business. Inoltre lo stesso idrogeno non è detto che provenga da una produzione verde, ma potrebbe essere anche acquistato da società che oggi spingono per l’opzione blu, ossia la produzione di idrogeno da gas fossile con una fantomatica cattura della CO2 sviluppata nel processo. Una tecnologia la cui validità è ancora tutta da provare, soprattutto su una larga scala. E così o gas o idrogeno, l’utilizzo del fossile continuerebbe in barba ad ogni transizione ecologica, con il nuovo impianto certificato verde dalla finanza internazionale e la società che farebbe profitti anche più elevati.

Essendo la tassonomia una classificazione sistematica di tutte le categorie, è difficile non chiamare quella del gas fossile una vera e propria “frode verde”. Una frode che rischia di essere legalizzata a breve con il marchio europeo.

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