Nuovo rapporto di Greenpeace Italia e ReCommon: con la cattura e lo stoccaggio della CO₂ (CCS) ENI punta su una tecnologia fallimentare che non risolverà la crisi climatica

Roma, 6 giugno 2024 – La Cattura e lo Stoccaggio della CO₂ (CCS) è da un lato solo una falsa soluzione per mitigare il riscaldamento globale e dall’altro la foglia di fico delle multinazionali fossili come ENI per continuare a estrarre gas e petrolio. È quanto denunciano Greenpeace Italia e ReCommon nel rapporto “CCS, l’ennesima falsa promessa di ENI”, diffuso oggi dalle due organizzazioni. 

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CCS, L’ENNESIMA FALSA PROMESSA DI ENI
CCS, L’ENNESIMA FALSA PROMESSA DI ENI
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Come si legge nel rapporto, dal 2009 i governi di tutto il mondo hanno stanziato 8,5 miliardi di dollari per progetti di CCS, ma solo il 30% di questi finanziamenti è stato speso perché alcuni progetti non sono riusciti a partire, mentre molti altri sono in ritardo o hanno ottenuto risultati così deludenti da essere già stati abbandonati per insostenibilità economica o problemi tecnici.

Eppure ENI punta molto su questa tecnologia e si prepara a lanciare una nuova società che raggrupperà le attività di CCS. In Italia c’è il progetto pilota ideato con Snam, a Ravenna, che doveva entrare in funzione a marzo, ma di cui si sono perse le tracce. Sulla carta, proprio con il progetto pilota di Ravenna e la possibile “diramazione” francese Callisto, ENI intende fare dell’Italia l’hub di CO₂ nel Mediterraneo.

Intanto nel Regno Unito il colosso italiano del gas e del petrolio ha già siglato un accordo multimilionario per HyNet North West, che interessa il comparto industriale di Liverpool, mentre altri progetti potrebbero vedere la luce in Libia, Paesi Bassi, Asia-Pacifico, Mar Mediterraneo e Mare del Nord. Il Cane a sei zampe promette di arrivare a una capacità di stoccaggio gross unrisked di circa 3 GigaTon, una capacità attiva di iniezione di CO₂ di oltre 15 milioni di tonnellate all’anno (MTPA) entro il 2030, in aumento fino a circa 40 MTPA dopo il 2030.

L’interesse di ENI per questa tecnologia è talmente forte da aver mobilitato un corposo contingente di delegati per la COP28 di Dubai, identificati dall’organizzazione statunitense CIEL come lobbisti della tecnologia CCS, in quanto rappresentanti di un’azienda che ha all’attivo progetti pilota di cattura e utilizzo o stoccaggio del carbonio, nonché pubblicamente schierata a favore di queste tecnologie. Non a caso il giudizio dell’amministratore delegato di ENI, Claudio Descalzi, sulla COP28 è stato molto positivo, soprattutto per quel che riguarda il risultato ottenuto sulla decarbonizzazione dell’industria pesante attraverso la cattura di CO₂. 

A confermare la centralità di questa tecnologia per il Cane a sei zampe è la recente presentazione del Capital Markets Update 2024, in occasione della quale ENI ha illustrato la sua strategia climatica, sostenendo che la CCS diventerà “una delle piattaforme chiave del portafoglio di ENI orientato alla transizione energetica, sia per la decarbonizzazione delle proprie operazioni che come servizio per la decarbonizzazione di industrie terze” e “leva fondamentale per ridurre le emissioni nette e guidare la transizione energetica”. ENI prevede così di aumentare fino al 2027 l’estrazione e la produzione di combustibili fossili. Rassicura i suoi investitori con profitti crescenti e al contempo si impegna a compensare l’aumento di emissioni con la promessa di riuscire a catturarle prima che raggiungano l’atmosfera, spacciandosi così da paladina del clima. 
«ENI sta tentando di nascondere la CO2 sotto al tappeto pur di continuare con il suo business più profittevole, cioè la produzione di petrolio e gas. In Italia lo fa con il progetto Ravenna CCS, scommettendo su una tecnologia rischiosa e fallimentare, i cui costi faraonici finiranno per ricadere sulle tasche dei contribuenti italiani, come dimostra il progetto HyNet in Gran Bretagna»,  dichiara Eva Pastorelli di ReCommon.

«Quella della CCS è un’operazione di greenwashing studiata a tavolino dall’industria fossile, utile solo ad allungare la vita alle estrazioni petrolifere», dichiara Simona Abbate di Greenpeace Italia. «Solo un mese fa un report  bicamerale degli USA ha mostrato come le aziende fossili incentivano pubblicamente le tecnologie CCS, mentre nei documenti privati ne riconoscono l’elevato costo. Questi soldi devono essere investiti nella transizione energetica e non in false soluzioni come il CCS».

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