L’Europa e la trappola neocoloniale del Corridoio Sud dell’idrogeno

Tratto da Altreconomia 272 — Luglio/Agosto 2024

A fine maggio il ministro per l’Ambiente e la sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin, la sua omologa austriaca Leonore Gewessler e il tedesco Robert Habeck hanno firmato una dichiarazione comune che definisce a tutto tondo il sostegno politico dei tre governi alla costruzione del Corridoio Sud dell’idrogeno. L’incontro, avvenuto a margine del Consiglio europeo per l’energia, ha avuto la benedizione della commissaria europea per l’Energia Kadri Simson, tra le figure che più hanno spinto l’agenda dell’idrogeno dal Green Deal in poi. “Un’iniziativa che ha il potenziale per divenire un progetto chiave per trasportare il tanto e necessario idrogeno verde verso i centri industriali europei, per sostenere la loro decarbonizzazione, rafforzando l’interconnessione tra i Paesi membri e i nostri partner in Nord Africa”, ha dichiarato la commissaria.

Il ministro per l’Ambiente e la sicurezza energetica Gilberto Pichetto Fratin insieme all’omologa austriaca Leonore Gewessler (a sinistra) e al segretario di Stato del ministero tedesco Sven Giegold (al centro) e alla commissaria europea per l’Energia Kadri Simson (a destra) © Unione europea

Il Corridoio Sud dell’idrogeno è un’infrastruttura di 3.300 chilometri che dal Nord Africa dovrebbe arrivare fino in Germania, passando per l’Italia, per trasportare idrogeno prodotto in buona parte in Tunisia. Tornato in auge nel contesto della crisi del gas, è tra i Progetti di interesse comune e di interesse mutuo della Commissione europea, e considerato tra le infrastrutture necessarie alla sicurezza energetica del continente. Con il “RePower Eu” infatti, l’Unione europea ha portato a venti milioni di tonnellate l’obiettivo della produzione di idrogeno verde, di cui dieci milioni da fuori l’Ue. Se il progetto vedesse la luce, potrebbe coprire fino al 40% dei target di importazione europei.

Parte centrale del corridoio è la Italian hydrogen backbone, la spina dorsale di un progetto particolarmente ambizioso voluto dall’italiana Snam, corporation a partecipazione pubblica e tra i principali operatori per il trasporto del gas in Europa. Snam è tra le aziende che hanno dispiegato forze significative per promuovere l’opera a livello europeo, influenzando i processi politici e legislativi che incentivano la costruzione di un mercato dell’idrogeno come chiave di volta per la decarbonizzazione dell’economia europea e quindi il finanziamento pubblico degli interventi necessari.

Le infrastrutture sono infatti la base indispensabile per la costruzione di un mercato: il progetto completo comprende ben cinque corridoi d’importazione i cui costi, secondo le multinazionali del gas, potrebbero raggiungere i 130 miliardi di euro e dovrebbero essere coperti dalle casse pubbliche europee e degli Stati membri. La dichiarazione di intenti di Italia, Germania e Austria va proprio in questa direzione. Il segmento italiano del Corridoio Sud dell’idrogeno dovrebbe essere composto per il 70% da gasdotti già esistenti, ri-adattati per far circolare nelle loro tubature l’idrogeno. Un’operazione il cui costo stimato è di quattro miliardi di euro, che potrebbero essere coperti anche da aiuti di Stato. Qualche mese fa la Commissione europea ha dato via libera alla richiesta di sette governi, tra cui quelli di Italia, Germania e Slovacchia, di finanziare progetti per il trasporto e la produzione di idrogeno per 6,9 miliardi di euro. Una deroga alla normativa sulla concorrenza che la Commissione ha deciso di applicare proprio per sostenere la costruzione di un “mercato europeo dell’idrogeno” a partire dalle infrastrutture. Per i governi che potranno concedere gli aiuti si tratta di risorse che provengono dalle casse pubbliche e che quindi dovranno essere sottratte ad altri capitoli di spesa.

Cinquecento organizzazioni africane hanno criticato il progetto promosso dall’Ue: “non fa nulla per i 600 milioni di africani che non hanno accesso all’energia”

Da quanto dichiara Snam nelle risposte alle domande presentate da ReCommon in occasione della recente assemblea degli azionisti, “la hydrogen backbone in questo momento è un progetto. Non sono infatti state ancora realizzate tratte ma solo certificata la hydrogen readiness su 1.500 chilometri circa”. Hydrogen ready è la formula con cui vengono descritti i gasdotti adatti a trasportare una certa quantità di idrogeno compresa tra il 10% e il 20%, “mescolata” con il gas fossile. Così, secondo l’industria, la miscela di gas che viene bruciata genererebbe meno emissioni, contribuendo alla decarbonizzazione. Il condizionale è d’obbligo, in primis perché la normativa che regolerà il trasporto dell’idrogeno nei singoli Stati deve essere ancora discussa e normata (in Italia dall’Autorità di regolazione per energie reti e ambiente, Arera).

Poi perché si tratta di un approccio che ignora i costi del trasporto dell’idrogeno su lunghe distanze, come nel caso di quello da produrre in Tunisia, e della sua generazione. Per ottenere un chilogrammo di questo gas servono nove litri di acqua “ultrapura”. Questo significa 13 litri di acqua dolce, o fino a venti litri di acqua da desalinizzare. In Paesi in buona parte desertici, quali la Tunisia, i piani per la produzione di idrogeno “verde” prevedono la realizzazione di impianti di desalinizzazione dedicati, che quindi sarebbero al servizio dell’industria e non per garantire l’accesso all’acqua alla popolazione. Una scelta che rischia di acuire l’instabilità sociale attorno a una questione delicata come quella della gestione delle risorse idriche.

Il Corridoio Sud dell’idrogeno è anche tra i progetti energetici compresi nel Piano Mattei, uno dei punti cardine della politica estera del Governo Meloni e già criticato dalla società civile africana in occasione della sua presentazione lo scorso gennaio. Società civile africana che ha già espresso le proprie remore anche rispetto all’idrogeno verde. In una dichiarazione firmata da 500 organizzazioni africane, questo gas viene bollato come una “falsa soluzione”, che “non fa nulla per i 600 milioni di africani che non hanno accesso all’energia. Invece trasforma la nostra produzione rinnovabile in merce da esportazione. Si tratta di un’estrazione neocoloniale delle risorse energetiche e idriche africane. L’energia rinnovabile deve essere destinata prioritariamente all’uso interno, non ai mercati esteri. L’idrogeno verde per la produzione a basso valore aggiunto in Africa genera trappole economiche strutturali che dobbiamo superare”.

Niente di nuovo: semplicemente una nuova veste per il caro vecchio modello estrattivista che con l’idrogeno verde riprende forza, in chiave green.

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