Le vie del cemento (senza seta)

Immagine: China Daily/File

[di Antonio Tricarico]

Si è parlato tanto nelle ultime due settimane dell’adesione italiana al progetto cinese di promozione delle Nuove Vie della Seta, meglio noto a livello internazionale come la Belt and Road Initiative. Un piano faraonico di strade, ferrovie, hub logistici (la strada – road) e autostrade del mare con porti e loro connessioni a terra (la cintura – belt) che connetterebbe Asia ed Europa, ma anche il Medio Oriente e l’Africa, al fine di rilanciare gli scambi commerciali e gli investimenti tra i due blocchi.

Oggi il Presidente Xi Jinping, nuovo timoniere della Cina nel XXI secolo, è a Roma per firmare un controverso Memorandum of Understanding con il governo italiano: un atto politico rilevante e senza precedenti nelle relazioni Italia-Cina.

Fino ad oggi tutta l’attenzione è stata posta sul significato geopolitico di questa decisione del governo italiano e sulle implicazioni a livello europeo, nonché per la competizione globale tra Usa e Cina proprio su suolo europeo. Il premier Giuseppe Conte, come un nuovo Marco Polo, ha rassicurato che gli impatti economici della nuova cooperazione saranno solo positivi, alludendo alla favoletta dell’export di prodotti di qualità italiani per i nuovi ricchi in Asia. Lasciando da parte le usuali bagarre governative tra leghisti e grillini su quale politica estera ed economica promuovere, sarebbe invece il caso di parlare apertamente delle implicazioni socio-economiche del mega-piano cinese per l’Italia e l’intero pianeta, aspetto che soprattutto il Movimento 5 Stelle trascura. O non vuole vedere.

Nel seguito della crisi finanziaria ed economica che ha colpito l’Occidente dieci anni fa la Cina ha cercato di ricentrare la propria crescita economica sullo sviluppo del mercato interno, al fine di migliorare gli squilibri globali ed essere meno vulnerabile a shock esterni. Ma questo sforzo non ha pagato appieno e il Paese continua a produrre in eccesso rispetto alla domanda interna. Da qui nasce la necessità di esportare in maniera possente. Ne consegue che per sostenere una crescita elevata tali commerci si devono velocizzare. La crisi commerciale con gli Usa ha posto nuove sfide, per questo si è materializzata l’urgenza di accelerare con il piano che oramai è diventato la bandiera della presidenza Xi. Una trasformazione interna ed esterna della Cina, che così si riaffaccia sulla scena internazionale in maniera assertiva. Una svolta paragonabile per la sua scala agli stravolgimenti prodotti dalla rivoluzione culturale di Mao.

La Belt and Road Initiative è l’esempio più sistemico di una visione che non ha genitori solo in Cina. Ossia quella della creazione di una “globalizzazione 2.0”, che acceleri la prima stagione della liberalizzazione mondiale dei commerci iniziata negli anni ‘70. L’obiettivo è riscrivere la geografia del pianeta concentrando l’estrazione di risorse in quei pochi luoghi strategici non ancora del tutto sfruttati, costruendo mega-corridoi che consentano il transito di risorse, energia, merci e dispongano di mega-stazioni che funzionino come hub di trasformazione industriale delle materie prime in prodotti destinati a un numero altrettanto ristretto di mega-centri di consumo urbani in occidente e nei paesi emergenti, all’interno di cui agglomerare buona parte della popolazione mondiale.

I mega-corridoi, gli hub, i porti, e le nuove megalopoli (cosiddette Smart Cities) avranno normative ad-hoc, fuori dalle legislazioni nazionali, ossia saranno zone franche o economiche speciali. Uno studio di Goldman Sachs, dal “modesto” titolo “Costruire il mondo” (“Building the world”), preconizzava già nel 2008 il nuovo imperativo della turbo-globalizzazione a trazione cinese con prodotti “made in the world” al di fuori da ogni giurisdizione esistente.

È il mito del “just in time” globale: compro online il nuovo smartphone, l’ordine arriva subito nelle miniere e nelle fabbriche, il telefono in poco tempo viene assemblato, parte e velocemente arriva a casa (a regime si mira a scendere a 7 giorni dall’ordine in Cina alla consegna in Europa).

La finanza globale – anch’essa ormai senza bandiera nazionale – si è subito mostrata interessata a questo piano Marshall planetario per salvare la morente globalizzazione liberista, proponendo schemi di “mega partnership pubblico-privati” per la realizzazione e soprattutto il finanziamento di bouquet di mega-progetti infrastrutturali assemblati insieme per creare nuovi asset finanziari da vendere ad investitori istituzionali in tutto il mondo. Anche questi ultimi sono in crisi di accumulazione, come l’economia cinese, e assetati di nuovi investimenti profittevoli a fronte di un’economia globale che rallenta.

Più che di Vie della Seta, bisognerebbe parlare di Vie del Cemento a cui tutto il sistema commerciale si adeguerà: saranno impiegate mega navi container di taglie varie volte superiori a quelle attuali e treni esagerati che dovranno passare frontiere con pochi controlli ma con un’infrastruttura di sicurezza che tracci ogni vagone come il sistema del controllo degli aerei a livello internazionale. E lì dove ci sono rischi e conflitti, la militarizzazione sarà la strada maestra per difendere il flusso continuo di merci tramite i mega-corridoi. Il mondo alla fine sarà diviso in maniera netta tra chi sarà organico ai mega-corridoi – incluse masse di lavoratori sfruttati in Asia e Occidente – e chi sarà abbandonato a se stesso fuori dal grande gioco, se non avrà la sfortuna di vivere sopra le riserve minerarie o dove passerà un mega-corridoio.

Insomma la TAV in Val Susa o il TAP nel Salento sono giochi per bambini in confronto a questo piano apocalittico che si è già messo in moto in Asia. Senza parlare di quale sarà l’impatto climatico di tale colata di cemento sul globo del pianeta e l’aumento esponenziale di traffici commerciali che ne conseguirebbe. La decisione del governo italiano non va letta quindi come un favore o una concessione fatta alla Cina – cattiva o buona che sia – in chiave geopolitica, ma come una decisione di sposare in toto la turbo-globalizzazione che verrà e produrrà una nuova apartheid globale. Per coloro che prendevano le strade e contestavano il progetto di globalizzazione negli anni ‘90 è giunto il momento di alzare la voce ed organizzarsi, rivendicando il vero pensiero internazionalista “anti-globalizzazione” contro le contraddittorie derive sovraniste e iper-liberiste. Prima che sia troppo tardi.

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