Articolo uscito sul quotidiano Domani il 22/07/2021, qui riproposto in una versione estesa e aggiornata.
Con l’aggravarsi della crisi climatica, la frequenza e la violenza di fenomeni naturali estremi è aumentata notevolmente. Nei mesi scorsi, le immagini provenienti dal Canada hanno fatto il giro del mondo: sono stati sfiorati i 48 gradi a una latitudine abituata a ben altre temperature, e i conseguenti incendi hanno fatto il resto, con la distruzione di ettari di foreste e centri abitati. Le piogge alluvionali in Germania e Belgio hanno riportato il tema dei cambiamenti climatici al centro del dibattito europeo, come se ci fosse bisogno della perdita ulteriore di vite umane per smuovere le coscienze di una classe politica che sembra immobile dinanzi ai fenomeni più rilevanti del presente. In tempi recenti, anche l’Italia ha vissuto un’anteprima del clima che verrà, dalla Tempesta Vaia di ottobre 2018 all’alluvione di Palermo di un anno fa.
Nel 2020, le emissioni di CO2 sono diminuite di circa il 7% rispetto all’anno precedente, conseguenza delle chiusure volte a contenere la diffusione della pandemia. Un dato temporaneo e purtroppo marginale di cui è difficile compiacersi, dal momento che, proprio durante la pandemia, la finanza globale ha continuato a sostenere copiosamente il settore dei combustibili fossili, a partire dal carbone. Negli ultimi cinque anni, il supporto finanziario concesso al più inquinante dei combustibili fossili non è affatto diminuito, nonostante voci autorevoli ne abbiano chiesto l’immediata interruzione, affiancandosi a quelle delle comunità impattate dalla polvere nera. António Guterres, Segretario Generale delle Nazioni Unite, ha parlato di “dipendenza mortale” dal carbone, e di come la finanza globale debba fare la sua parte. Il sostegno al comparto del petrolio e del gas, responsabile del 55% delle emissioni globali di CO2 del settore energetico, non è da meno: 3.800 miliardi di dollari stanziati dalle principali banche mondiali dal 2016, quando è entrato in vigore l’Accordo di Parigi, ad oggi.
Con asset pari a circa 94 mila miliardi di dollari, è evidente come le cento più grandi banche del mondo abbiano la capacità di influenzare l’organizzazione delle nostre economie e, di conseguenza, delle nostre società. È stata la finanza privata a gettare le basi per l’emergere dell’economia del petrolio decenni addietro e ci sta ora conducendo verso quella del gas. Un combustibile fossile che, se disperso nell’atmosfera, ha un potenziale climalterante 84 volte superiore a quello del carbone in un orizzonte temporale di vent’anni. Allo stesso tempo, l’industria fossile e la finanza lo presentano come “naturale”, “pulito” e “necessario” alla transizione verso le energie rinnovabili.
Il ruolo dell’Italia
Se la Conferenza sul clima (CoP26) di Glasgow si fosse tenuta regolarmente nel 2020, la finanza globale sarebbe stata tra i principali imputati per la crisi climatica in corso. Si potrebbe dire che la pandemia abbia concesso a questo settore un anno di bonus, al fine di poter ridurre drasticamente la propria esposizione al business dei combustibili fossili.
Al banco degli imputati è presente anche la finanza italiana, quest’anno investita di un ruolo rilevante con la co-presidenza della CoP26 che spetta proprio al nostro Paese, ospitando a Milano la CoP Giovani e la Conferenza preparatoria tra settembre e ottobre, in vista di quella di Glasgow. Senza dimenticare il G20, che vedrà il suo atto conclusivo a Roma a fine ottobre.
Sullo sfondo di questi incontri internazionali troviamo Next Generation EU, strumento europeo temporaneo di supporto alla ripresa socio-economica in seguito alla pandemia, che, almeno nelle intenzioni, punta fortemente sulla transizione ecologica. L’Italia è il principale Paese beneficiario di questi fondi e, prendendo in considerazione il suo tessuto industriale e la collocazione geografica, sarà il banco di prova per ogni cambiamento sistemico di necessaria attuazione.
Un’importante variabile si è poi inserita nel dibattito pubblico degli ultimi mesi su clima e ambiente, cioè il monito lanciato in maniera sorprendente dall’Agenzia Internazionale dell’Energia (AIE), secondo cui è finito il tempo di finanziare nuove esplorazioni e produzione di combustibili fossili. Una presa di posizione inaspettata, alla luce del fatto che l’AIE è stata spesso vicina alle posizioni dell’industria fossile.
AIE che si troverà ad analizzare la sostenibilità del piano di ripresa italiano nella cornice di Next Generation EU, nonché a rivestire il ruolo di consigliere in materia di energia e clima in occasione del G20, su richiesta dello stesso governo Draghi. Un accordo siglato lo scorso aprile dal ministero dello Sviluppo economico, con un contratto che prevede un compenso all’Agenzia di circa mezzo milione di euro.
Alla luce del suo recente posizionamento, sarà interessante conoscere le valutazioni complessive dell’Agenzia sul Sistema-Italia, modello che poggia fortemente sul triangolo finanza privata-industria fossile-finanza pubblica, all’interno del quale troviamo soggetti quali Intesa Sanpaolo, Eni e SACE. Tra il 2016 e il 2020, Intesa ha finanziato carbone, petrolio e gas con 44,8 miliardi di euro, di cui 5,4 nel solo 2020, per lo più in società che stanno espandendo il proprio business fossile.
Eni, per il 30 per cento ancora in capo allo Stato italiano, cita spesso le analisi dell’Agenzia nei suoi vari report, al fine di dimostrare la compatibilità del suo piano di decarbonizzazione con la necessaria transizione. Ma proprio poche settimane fa ha inaugurato un nuovo giacimento in Indonesia, e continua a investire massicciamente nell’esplorazione di nuove riserve di idrocarburi.
Infine c’è SACE, agenzia pubblica di credito all’esportazione controllata di Cassa Depositi e Prestiti, recentemente passata sotto il controllo del ministero dell’Economia e delle Finanze: dal 2016 al 2020, ha supportato il comparto del petrolio e del gas con 8,6 miliardi di euro.
Un Sistema-Italia in cui i prestiti e gli investimenti della finanza privata “agevolano” le esplorazioni, la produzione e il trasporto degli idrocarburi. Nel caso l’industria fossile non riesca a ripagare il proprio debito, subentra quindi la finanza pubblica con le sue garanzie, restituendo alla finanza privata la quota concessa. Soldi dei contribuenti quindi, che non sono soggetti a pubblico scrutinio e che vanno a finanziare attività contro l’interesse collettivo.
Intesa Sanpaolo: banca al servizio dei combustibili fossili
Con l’incorporazione di UBI, Intesa Sanpaolo è divenuto il primo gruppo bancario italiano. Nel 2020, il suo utile netto ha raggiunto l’esorbitante cifra di 3,5 miliardi di euro. Se a ciò aggiungiamo il suo recente ingresso nella top30 delle banche mondiali, è innegabile che sia a tutti gli effetti un colosso con cui fare i conti sotto il profilo economico e sociale.
Il mese successivo al primo lockdown, il governo ha affidato le chiavi del Paese alle banche, dalle quali far passare la liquidità per le imprese in difficoltà in seguito al decreto-legge dell’8 aprile 2020, il cosiddetto “Decreto Liquidità”. Intesa è stata così la prima banca italiana a sottoscrivere il protocollo di collaborazione con SACE per il programma “Garanzia Italia”, che permette l’erogazione di prestiti garantiti dallo Stato. Un legame che poggia su un dato inequivocabile: Intesa Sanpaolo è il principale creditore dello Stato italiano dopo la Banca Centrale Europea, detenendo circa 100 miliardi di euro del debito italiano. Si può così inquadrare la sua influenza sulle scelte strategiche del Sistema-Italia.
Sempre nel 2020, il gruppo ha stanziato 625 milioni di euro per supportare famiglie e operatori economici colpiti da eventi atmosferici “straordinari” sul territorio italiano. A ciò si aggiungono 2,5 miliardi di euro per finanziamenti a favore della “Green e Circular Economy” e l’annuncio di voler contribuire al Green Deal europeo.
L’immagine che emerge è quella di una banca sostenibile, impegnata per l’ambiente e i territori. Quello che invece Intesa omette è lo stanziamento di copiosi finanziamenti all’industria fossile, a cui ha concesso 5,4 miliardi di euro nel solo 2020. Questa elevata esposizione a carbone, petrolio e gas non solo mette in risalto la strategia di greenwashing del gruppo torinese, ma va in direzione opposta rispetto a quanto previsto dall’Accordo di Parigi sul clima. Un atteggiamento finanziario – tenuto da Intesa Sanpaolo e da altre banche di sistema europee – che costituisce una grave minaccia non solo per una giusta transizione ecologica, ma anche per il tessuto economico e sociale di vari Paesi. Come evidenzia una recente ricerca dell’Institut Rousseau, se gli asset dei combustibili fossili dovessero subire una repentina svalutazione, essendo uguali o maggiori al patrimonio netto delle banche, queste rischiano di non avere capitale sufficiente a coprire le perdite, con reazioni a catena simili a quelle della crisi dei subprime del 2007, foriera dell’aggravarsi di disuguaglianze sociali su scala globale.
Diversamente da competitor italiani ed europei, Intesa ha adottato impegni sui combustibili fossili tra i più tardivi e deboli in tutto il Vecchio continente. Policy limitate ai soli prestiti, cosicché sottoscrizioni e investimenti possano proseguire indisturbati. Sul fronte del carbone, riscontriamo nuovamente un approccio caratterizzato da doppi standard, con la contrapposizione tra estrazione e combustione: entro il 2025 fuoriuscita completa dal settore minerario carbonifero, ma nessuna data per chiudere i rapporti con la produzione di energia derivante dalla combustione della polvere nera. Per quanto riguarda petrolio e gas si brancola nel buio, con criteri di riduzione o esclusione dei finanziamenti solamente abbozzati e sacche di greenwashing a ogni piè sospinto. Tra queste sacche spiccano i finanziamenti alle operazioni nella Regione artica: l’obiettivo è di chiudere con i prestiti alle operazioni di esplorazione e produzione di gas off-shore, permesse invece quelle sulla terraferma. Una clausola ad hoc, che nasconde interessi milardari.
Artico
Se i rischi connessi alla produzione di idrocarburi presentano caratteristiche comuni a ogni latitudine, nell’Artico questi aumentano esponenzialmente: le condizioni estreme della regione non fanno che accrescere le possibilità di fuoriuscite e incidenti, minacciando ecosistemi già fragili. Nell’estate 2020, l’artico siberiano è stato colpito da più di 300 grandi incendi e da uno dei peggiori disastri petroliferi nella sua storia. A ciò si aggiunge il sempre più rapido scongelamento del permafrost e, sul fronte marino, quello dei depositi di metano, che rischiano di rilasciare enormi quantità di gas serra nell’atmosfera.
Nel 2020, Intesa ha finanziato e investito copiosamente in quelle società in prima fila nello sfruttamento delle risorse artiche, in particolar modo Eni, Equinor, Total e ConocoPhillips, per un totale di circa 1,4 miliardi di euro. La piattaforma Goliat, in capo a Eni ed Equinor e situata nel Mar Glaciale Artico, produce più di 100mila barili di greggio al giorno, e nel 2022 si dovrebbe aggiungere la produzione dal giacimento Johan Castberg. A causa della progressiva riduzione della calotta polare, la corsa alle risorse naturali del Mar Glaciale Artico sembra solo iniziata, come testimoniano le 70 licenze offerte di recente dal governo norvegese.
Luce verde ad Arctic LNG-2
Nell’artico russo il colosso francese Total e la società russa Novatek detengono l’impianto di liquefazione di gas fossile Yamal LNG, finanziato nel 2016 proprio da Intesa Sanpaolo con un’operazione da 750 milioni di euro garantita da SACE per 400 milioni. Stessa sorte spetterà al progetto Arctic LNG-2, di cui manca solo l’ufficialità.
Arctic-LNG 2 è un enorme impianto di liquefazione di gas, progettato per esportare gas fossile estratto dal vicino deposito di Utrenneye. Operativo dal 2023, sarà in grado di produrre 20 milioni di tonnellate di gas liquefatto all’anno, proveniente dagli enormi giacimenti sotto la calotta artica. Una volta trasformato in forma liquida, il gas sarà esportato principalmente verso l’Asia e, in secondo battuta, in Europa, sfruttando le rotte marittime apertesi proprio in seguito allo scioglimento dei ghiacci causato dal riscaldamento globale. Il costo totale del progetto è di 21,3 miliardi di dollari, metà dei quali in capo alle società coinvolte, mentre l’altra sarà raccolta attraverso prestiti provenienti da banche commerciali russe, asiatiche ed europee, garantiti dalle rispettive agenzie di credito all’esportazione.
A ottobre 2020, quando trapelarono le prime indiscrezioni su un possibile coinvolgimento di attori italiani nel nuovo progetto, il gruppo bancario torinese decise di barricarsi dietro un muro di silenzio, mentre SACE aveva risposto che fossero in corso d’opera le dovute valutazioni.
Con la garanzia posta da SACE, gli investimenti in Total, la scappatoia presente nella recente policy, le buone relazioni che intercorrono con Novatek – e in generale con Mosca – e le manifestazioni di interesse al progetto esplicitate a mezzo stampa già alla fine del 2019, il supporto finanziario di Intesa Sanpaolo è scontato. Un finanziamento che, nel caso il progetto subisca un’interruzione – evento altamente probabile in quella regione – potrebbe costare ai contribuenti italiani circa 1 miliardo di euro. La cifra, garantita da SACE, servirebbe a supportare le società private italiane coinvolte nell’opera: Saipem, soggetta al controllo condiviso di Eni e Cassa Depositi e Prestiti e già facente parte della joint venture per la realizzazione del progetto, e Nuovo Pignone, controllata della statunitense Baker Hughes.
Il 23 giugno 2021, SACE ha riportato sul proprio sito istituzionale l’inizio ufficiale della valutazione ambientale del progetto Arctic LNG-2. Una procedura che, secondo i regolamenti dell’OCSE, le agenzie pubbliche di credito all’esportazione adottano un mese prima di autorizzare la garanzia al credito per il progetto. Mentre in Francia lo stesso Macron nutre seri dubbi sull’opportunità di apporre una garanzia pubblica al progetto, con il risultato di un duro scontro a mezzo stampa tra l’Eliseo e Total, il Sistema-Italia sembra tirare dritto per la sua strada. Il Primo Ministro Draghi, avendo affermato la necessità di agire ora e non pentirsi domani al fine di contrastare la crisi climatica, avrebbe il potere di intervenire e bloccare questa spaventosa operazione, ma difficilmente si esporrà contro i “campioni” nostrani, essendone fervente sostenitore.
Conclusioni
Il triangolo finanza privata-industria fossile-finanza pubblica sembra avere saldamente le mani sul Paese, orientando l’agenda pubblica e facendo incetta dei soldi provenienti da Bruxelles, come hanno mostrato anche le pressioni esercitate sul Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, con l’industria fossile in prima fila nel promuovere false soluzioni per una transizione che non si vede. La finanza privata italiana, di cui Intesa Sanpaolo è il rappresentante più illustre, ha legami sempre più forti con la sfera pubblica e, insieme ai campioni fossili di casa nostra, ne modella obiettivi, strategie e piani, affinché siano allineati con il proprio business. In questo quadro poco confortante, risulta assordante il silenzio della Banca d’Italia, unico organismo che potrebbe far valere la propria voce nei confronti delle banche commerciali. L’istituzione presieduta da Ignazio Visco continua a essere prolifica in termini di pubblicazioni sui rischi climatici ma manca di una posizione pubblica sulla limitazione dei finanziamenti ai combustibili fossili, adottata invece di recente dalla Banca Centrale Europea. Anche la tanto attesa Carta sugli Investimenti sostenibili, pubblicata recentemente dall’istituto di Palazzo Koch, non menziona alcun criterio di esclusione per gli investimenti nei combustibili fossili.
Ecco dunque che le sorti della “vera transizione” sembrano essere ancora di più nelle mani di comitati e movimenti e associazioni, che non possono fare altro che evidenziare le incongruenze del sistema ed esporre la responsabilità della finanza privata nel perseguimento del business as usual, basato su un triangolo fossile che sta abbracciando l’Italia in maniera mortifera.