[di Elena Gerebizza]
L’11 gennaio 2019 la TAP AG ha reso pubblico l’elenco delle banche che hanno finanziato il progetto. Si parla di un accordo finanziario per complessivi 3,9 miliardi di euro, composto in parte da finanziamenti pubblici (700 milioni della Banca europea degli Investimenti – BEI – e 500 milioni da parte della Banca europea per la ricostruzione e lo sviluppo – BERS –) e in parte dal prestito di una cordata di banche (tra cui le italiane Intesa San Paolo, Unicredit e Ubi Banca), quasi interamente garantito dalle agenzie di credito all’esportazione, quali l’italiana SACE (700 milioni), la francese Bpifrance Facility (450 milioni) e la tedesca Euler Hermes Facility del gruppo Allianz, (280 milioni).
Ma attenzione, anche la Banca europea degli investimenti – la banca di investimento dell’Unione europea – ha chiesto la copertura del rischio per il prestito che ha concesso a febbraio 2018 al Tap, garanzia di 700 milioni fornita dalla Commissione europea tramite il fondo per gli investimenti strategici EFSI, noto ai più come il “Fondo Juncker”, in teoria destinato a rilanciare le grandi opere in Europa.
Inoltre la BERS ha investito altri 500 milioni nel progetto, ma indirettamente. Ossia tramite gli istituti di credito privati, che così hanno potuto ridurre ulteriormente il rischio del prestito, anche usando la presenza della stessa BERS come come “garanzia del rispetto degli standard ambientali e sociali”. In pratica le banche delegano alla BERS la due diligence su ambiente e diritti umani, togliendosi “l’impiccio” di doversene occupare. Peccato che la BERS non sia esattamente famosa per il rispetto dei diritti umani e della normativa ambientale, né tanto meno per l’implementazione delle proprie politiche in merito. Una garanzia forse spendibile sulla carta, ma non di certo per chi gli impatti li vivrà sulla propria pelle, come è già successo in decine di progetti fallimentari finanziati dall’istituzione, per cui è stata pesantemente criticata negli ultimi anni.
Guardando all’Italia, e alla propria partecipazione nel progetto, che dire al “governo del cambiamento” insediatosi lo scorso giugno, che aveva fatto del no al Tap uno dei propri cavalli di battaglia? Beh, che grazie al voto favorevole al prestito della BERS, questo disastroso deal finanziario è stato sbloccato dopo più di tre anni di tira e molla in cui nessuno voleva prendersi la responsabilità di garantire uno scempio come il TAP. Il voto rappresenta infatti un atto concreto dell’attuale governo, successivo per altro alla decisione di disertare l’incontro con l’istituzione europea da parte delle istituzioni del territorio ad aprile.
Nessun cambiamento quindi, se non un bel carico di conseguenze per noi tutti. Saremo noi tutti a pagare la costruzione di questo gasdotto inutile, con le tasse che paghiamo. Pagheremo la quota di investimento di Snam con la quota in bolletta destinata a coprire il costo delle infrastrutture. Pagheremo anche il profitto a chi il gas lo venderà – che sia la Socar azera, o la Gazprom russa, o qualunque delle società che hanno già espresso interesse nel preacquisto del gas, per la vendita sul mercato europeo. E se il progetto sarà un flop colossale, pagheremo comunque per le quote di garanzia pubblica al mega prestito di qualche giorno fa. Chi si preoccupava delle “penali” chissà come mai ha deciso di farsi carico delle garanzie (la Sace è controllata dal governo italiano, e anche sulla gestione del fondo EFSI il governo italiano può dire la sua).
Questo mega prestito e le sue implicazioni non sono un problema dei salentini, né di Salvini o di Di Maio. Il problema è nostro, perché se TAP dice che “si tratta di un progetto privato” questo prestito dice invece che i costi veri – al di la dell’analisi costi benefici – li pagheremo noi.
Che fare quindi? Se crediamo che petrolio e gas siano un problema del presente e del passato, e debbano essere fuori dal futuro che stiamo costruendo, allora dovremmo prendere le distanze da chi ha messo i soldi in un gasdotto che peserà come un macigno sulle generazioni future. Unicredit e Intesa San Paolo sono le due più grandi banche italiane, che nonostante le belle parole su ambiente e futuro (Unicredit si definisce “una banca sostenibile”), materialmente banchettano su questo progetto. Durante l’incontro annuale con gli azionisti del 2018, entrambe le banche sono state interrogate da Re:Common, Banktrack e da alcuni membri del Movimento No TAP in merito al proprio coinvolgimento nel progetto. Entrambe negarono di finanziare o di valutare il finanziamento al Tap…
*Le banche commerciali che hanno partecipato al finanziamento del TAP sono: Bank of China Limited; BNP Paribas; CaixaBank, S.A.;Crédit Agricole Corporate and Investment Bank; Landesbank Hessen-Thüringen Girozentrale; ING Bank, a branch of ING-DiBa AG; Intesa Sanpaolo S.p.A.; Mizuho Bank, Ltd.; MUFG Bank, Ltd.; Natixis, London Branch; Siemens Bank GmbH; Société Générale; Standard Chartered Bank; Sumitomo Mitsui Banking Corporation; The Korea Development Bank; UBI Banca S.p.A; UniCredit Bank AG.