[di Giulia Franchi]
“Elimineremo le emissioni nette dell’upstream entro il 2030 (…) aumentando l’efficienza operativa, riducendo al minimo le emissioni dirette di CO2 del business e compensando le emissioni residuali con vasti progetti di forestazione”. A sentirlo parlare, Claudio Descalzi, sembra davvero un manager del terzo millennio, pronto a traghettare la sua ENI attraverso la oramai irrimandabile transizione energetica. Bisogna però intendersi sulle parole e sulle intenzioni.
Lo scorso 15 marzo, presentando l’aggiornamento del piano industriale al 2022, l’amministratore delegato ha parlato della sua strategia a giano bifronte: da un lato prevede, infatti, di far crescere ancora l’azienda nell’esplorazione e produzione di idrocarburi, mentre al contempo annuncia un piano di sviluppo di “rinnovabili”, ovviamente a servizio degli impianti produttivi, che porterebbero secondo lui a poter definire nel 2030 le attività estrattive ad emissioni “zero”. Come? “Riforestando” un pezzo d’Africa grande come tutto il Nord Italia.
Scendendo sul concreto, il programma presentato includerebbe la riduzione del famigerato gas flaring (il fenomeno di combustione in torcia del gas in eccesso derivato dall’estrazione del petrolio), la sostituzione dei combustibili convenzionali con le cosiddette rinnovabili per alimentare gli impianti, e per compensare le emissioni “residuali” ENI si lancerebbe in una grande campagna di “riforestazione” su 8 milioni di ettari di terra africana. Un programma che è tutto un programma. Affermare che si tratta di una strategia solo apparentemente avvincente e innovativa è comunque un eufemismo, però tacciarla solo di fare business as usual sarebbe ingiusto. C’è infatti molto di più.
Accantoniamo per un attimo il fatto che sono più di dieci anni che le comunità del Delta del Niger per esempio, e noi con loro, denunciano i disastrosi effetti delle attività di estrazione di ENI, raccontando di una popolazione esasperata dal gas flaring, dagli sversamenti di petrolio e dalla militarizzazione del territorio che oggi chiede alle multinazionali di smettere di trivellare. Accantoniamo anche il fatto è dal 2005 che ENI è consapevole che il flaring del gas ha impatti “negativi”, “a lungo termine” e “irreversibili” sulla salute e sull’ambiente[1], e che nonostante sia consapevole dei pericoli in atto, ha continuato a farlo. E che sebbene nel maggio 2011, l’allora ad Paolo Scaroni, avesse già assicurato agli azionisti durante l’assemblea generale di ENI che la società intendeva ridurre a “zero” il flaring nella sua attività petrolifera entro giugno 2011, e che da allora la società ha dichiarato di non bruciare più gas in torcia [2], noi stessi abbiamo documentato a più riprese che il flaring continuava indisturbato in più siti nel Delta [3]. Trascuriamo, in sintesi, che quando si parla di ENI le rassicurazioni sulle intenzioni lasciano il tempo che trovano.
Concentriamoci invece sull’elemento di grande novità. ENI che compensa le emissioni “residuali” delle sue attività “upstream” “piantando 8 milioni di ettari di foreste”, per il quale alcuni punti di chiarimento diventano quanto mai necessari:
- Piantare alberi può essere una buona cosa, ma anche una pessima idea. Tutto dipende da cosa si pianta, da chi decide se piantarli o meno, dal motivo per cui si pianta, dalla scala, dalla funzione svolta dai terreni prima di piantarli e quindi dai costi o benefici che questo implica per popolazioni che vivono su quelle terre. Le piantagioni su larga scala di specie a crescita rapida, ad esempio, generano impatti drammatici sia in termini sociali che ambientali, e per questo le lotte di resistenza contro le piantagioni si sono diffuse esponenzialmente in tutto il mondo. Una foresta è costituita da una enorme diversità di piante e animali che interagiscono con gli elementi che la compongono e ne garantiscono la sua auto-rigenerazione. Anche le comunità umane fanno parte delle foreste autoctone, poiché molti esseri umani vi vivono, interagendo con le foreste e ottenendo da esse una serie di beni e servizi che ne garantiscono la sopravvivenza e spesso fornendogliene altrettanti. Una piantagione non è una foresta e l’unica cosa che le due hanno in comune è la predominanza degli alberi. Affermare il contrario significa solo fare disinformazione volta ad ottenere sostegno tra settori della popolazione non bene informati.
- L’attività “upstream” le cui emissioni ENI intende compensare con le piantagioni artificiali altro non è che l’estrazione e lavorazione dei combustibili fossili dal terreno. Ma è l’utilizzo dei combustibili fossili estratti ad avere un impatto sul clima di gran lunga maggiore rispetto alle emissioni derivanti dalla loro estrazione. L’unico modo per affrontare realmente il cambiamento climatico è lasciare i combustibili fossili nel terreno. Cosa che finora Eni non finge nemmeno di affrontare.
Alla luce di ciò, se a qualcuno dovesse ancora apparire paradossale che campioni globali dell’industria estrattiva come ENI si preoccupino della natura e del clima, forse a sfuggire è la capacità di adattamento e rigenerazione del sistema estrattivista, che pur di sopravvivere ha introiettato perfettamente la narrativa della green economy e se ne serve alla grande per rigenerarsi e potenziarsi.
La narrativa della rigenerazione e compensazione ambientale altro non è che una cortina di fumo per nascondere le motivazioni reali di chi ha bisogno di devastare la natura per continuare a estrarre in giro per il mondo, senza riabilitazione effettiva o mitigazione possibile.
Per una cosa, però, queste narrative siano estremamente efficaci: aiutano a spostare l’attenzione dal cosa al come. Concentrandosi sul come rendere sempre più socialmente accettabili ed ecologicamente sostenibili i soliti affari, permettono di evitare di discutere in modo trasparente e democratico su autentiche alternative a un modello di sviluppo basato sulla devastazione ai danni dei più e per il profitto di pochi.
[1] Environmental Impact Assessment of Idu field further development project by NAOC, September 2005.
[2] https://ricerca.repubblica.it/repubblica/archivio/repubblica/2011/10/02/onda-nera-che-soffoca-il-delta-del.html
[3] Leggi, in proposito, “Il Delta dei Veleni” e guarda il documentario “Oil for Nothing”