Cile, il paese con l’acqua più privatizzata del pianeta

Lago General Carrera, Patagonia cilena, 2010, foto © Luca Tommasini
Lago General Carrera, Patagonia cilena, 2010, foto © Luca Tommasini

[di Tancredi Tarantino]

Quando nel 1981 il dittatore Augusto Pinochet fece approvare il Código de Agua, nessuno immaginava che potesse rimanere in vigore per oltre 30 anni. Come ci si può immaginare viste le premesse, quella era una legge tutta rivolta al mercato che consegnava l’acqua del Cile alla grande finanza speculativa, a discapito di una popolazione intera.

Fondi di investimento, banche, multinazionali fecero a gara per accaparrarsi i certificati di proprietà sull’acqua dei fiumi e del sottosuolo del paese sudamericano, al solo scopo di fare profitto. Tra loro anche Enel che, ancora oggi, attraverso la sussidiaria Endesa, detiene l’81 per cento di tutti i diritti cosiddetti “non consuntivi” sull’acqua cilena.

Il ritorno di Michelle Bachelet alla presidenza della Repubblica, a distanza di quattro anni dal suo precedente mandato, aveva riacceso le speranze di chi da decenni chiedeva di sottrarre l’acqua a una logica di mercato e di speculazione finanziaria.

Mentre in parlamento si discuteva la nuova legge sull’acqua, l’esecutivo ha chiesto a maggio scorso una sospensione dei lavori per presentare una propria proposta di riforma. Il testo, presentato l’8 ottobre alla Commissione parlamentare per le Risorse Idriche, conferma però lo schema del 1981.

Per quanto si dia priorità al consumo umano, l’acqua rimane una merce concentrata in poche mani. In un paese dove la proprietà dell’acqua è separata da quella della terra, si concederanno certificati di uso esclusivo a 30 anni mentre non si toccheranno quelli concessi finora in forma perpetua, che rappresentano peraltro l’80 per cento del totale.

Anche il comparto minerario può dormire sonni tranquilli. La riforma proposta dal governo non contempla i diritti illegittimamente acquisiti dalle aziende minerarie nei decenni passati, che sono quindi salvi. Al tempo stesso, le imprese non sono obbligate a comunicare all’autorità competente la scoperta di nuove fonti d’acqua durante i lavori di estrazione, potendo farne liberamente uso.

Cdigo de Aguas cileno

L’acqua, insomma, rimane un bene economico in grado di generare profitto. E proprio questa è l’accusa principale mossa in questi giorni dai movimenti locali. In uno dei paesi più liberisti della regione, “non c’è la volontà politica di affrontare il problema vero dell’acqua che è la mercificazione e la gestione privata di questo bene comune”, denuncia in un duro comunicato il Movimiento social para la Recuperación del agua y la vida.

E non è un caso che anche il testo proposto dall’esecutivo continui a considerare i conflitti per l’acqua come una questione tra privati, dove se hai soldi per pagare avvocati e spese legali è molto probabile che alla fine la spunti.

Da 33 anni è in vigore il codice dell’acqua, 33 anni di lucro, usura e usurpazione di questa risorsa vitale per il pianeta”, ricorda l’attivista cileno Rodrigo Mundaca. “Fino a quando dobbiamo sopportare tutto questo?”, si chiede con una certa retorica l’attivista.

Il testo adesso passa in parlamento per la sua approvazione definitiva e vista la maggioranza trasversale che sostiene il progetto, verrebbe da rispondere a Mundaca: “Probabilmente a lungo”.

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