Chi ha davvero bisogno del terminale LNG di Krk, in Croazia?

“Golar Frost,” Foto ©Lens Envy. Flickr, CC BY-NC-ND 2.0

[di Elena Gerebizza]

È di pochi giorni fa la notizia della bocciatura del TAR croato dei diversi ricorsi presentati sulla valutazione di impatto ambientale del rigassificatore di Krk. Il progetto, fortemente contestato per le conseguenze sull’ambiente e per l’incompatibilità con i piani di sviluppo del comune ospitante, quello di Omisalj, rischia di diventare l’ennesima grande opera fallimentare sostenuta dalla Commissione europea, questa volta a danno della popolazione croata e di una delle più belle isole dell’Adriatico.

Il terminale LNG è uno delle decine di Progetti di interesse comune (PIC) della Commissione europea. Tuttavia non mancano le ombre sia sull’opera che sugli investitori. Il suo sponsor storico, l’imprenditore svizzero-croato Robert Jezic, è testimone chiave in un processo per corruzione a Zagabria, dove è imputato l’ex primo ministro Ivo Sanader con l’accusa di aver ricevuto una tangente di 10 milioni di euro dalla società energetica ungherese Mol per facilitare un accordo estremamente vantaggioso per l’acquisto della quota di maggioranza della società energetica croata INA.

Ma come spiegato nel rapporto Saccheggio 2.0 pubblicato da Re:Common, Counter Balance, Zelena Akcija e Friends of the Earth Europe, il progetto potrebbe servire interessi nascosti dietro la geopolitica UE-USA-Russia e dietro la narrazione mainstream sulla “sicurezza energetica” e sul “gas pulito”.

Come riportato da Euronews le relazioni commerciali di Jezic potrebbero essere legate a oligarchi russi vicini a Vladimir Putin. La società che ha acquistato i debiti e la proprietà dell’impianto di Dioki è Gasfin SA, una società del Gruppo Gasfin registrata in Lussemburgo. Le voci relative a Gasfin e al suo amministratore delegato Puklavec li collegherebbero anche a interessi russi.

Voci che è difficile sostanziare visto che il registro delle imprese del Lussemburgo non permette di risalire ai proprietari della società. Non sappiamo nemmeno a quanto Gasfin abbia acquisito la Dioki, possiamo immaginare che si tratti di un valore inferiore a quello di mercato. La Dioki era infatti tra i beni che la Heta Asset stava cercando di vendere da diversi anni per recuperare una parte della perdita generata dal crollo finanziario della Hypo Alpe Adria nel 2009.

Il fatto che “un progetto strategico” si trovasse su una proprietà nella lista di Heta Asset ha complicato i piani di sviluppo dell’LNG in Croazia. Forse il progetto in due fasi – costituito da un impianto offshore FSRU e da un più grande rigassificatore su terra, da costruire in seguito – era una strategia per aggirare le pendenze intorno all’impianto di Dioki e andare avanti.

Quando Gasfin è finalmente entrata nel progetto nel 2018, è diventato chiaro che c’erano due agende politiche intorno al terminale LNG in Croazia. La narrazione geostrategica ha sovrastato il dibattito pubblico sul progetto, evidenziando gli interessi russi dietro il terminal onshore progettato da Jezic e gli interessi statunitensi dietro la FSRU ora spinti da Zagabria.

Tuttavia, la storia potrebbe essere più complessa di così. Se da un lato non è ancora chiaro il ruolo di Robert Jezic nello scandalo della corruzione che coinvolge Sanader, dall’altro è certa la relazione affaristica tra i due, emersa anche nel caso di Hypo Alpe Adria (vedi pagina 7, Looting 2.0).

Inoltre, non ci sono dubbi sul ruolo svolto dall’Ungheria nel processo decisionale in materia di energia in Croazia. Dopo la privatizzazione presuntamente corrotta di INA, la società energetica ungherese MOL si è assicurata i diritti di gestione dominante su INA, che sono oggi messi in discussione dal governo croato. In un contesto decisionale “inquinato” è difficile dire se i mega progetti energetici in discussione vadano più a beneficio dell’Ungheria, della Croazia o degli investitori che stanno dietro al progetto.

Inoltre l’urgenza della Commissione europea di costruire più impianti di LNG come strategia per “diversificare” dalla Russia ha portato a includere nella pipeline dei finanziamenti UE anche progetti senza senso. L’Open season per la prevendita del gas andata deserta e i commenti dell’Ungheria – il principale beneficiario del gas di Krk, secondo la descrizione del progetto – sul prezzo del gas troppo alto e non competitivo sono elementi che ci inducono a pensare che il terminale LNG di Krk potrebbe essere uno di questi. A oggi sono stati acquistati solo mezzo miliardo di metri cubi di gas per il consumo interno (su una capacità di 2,6 milioni di metri cubi l’anno per il terminale offshore), non abbastanza per giustificarne la costruzione. Ma abbastanza per collocarlo in un quadro europeo inquietante in cui i 28 rigassificatori esistenti potrebbero coprire il 40 per cento del fabbisogno di gas di tutta Europa, ma il loro utilizzo è solo circa il 25 per cento della capacità.

Se da un lato la rete di interessi privati o privatistici spiega molto su questo progetto di cui alla fine si sa troppo poco, dall’altro la vera domanda rimane rispetto al ruolo della Commissione europea e di banche pubbliche come la Banca europea per gli investimenti (BEI), che ha inserito Krk tra i progetti finanziabili. La narrazione che “i rigassificatori non sono economicamente convenienti, ma fanno parte della strategia di diversificazione della UE per allontanarsi dalla dipendenza dalla Russia” regge sempre meno. È Reuters a dirci che a febbraio la Russia ha venduto una quantità record di LNG all’Europa, diventando per la prima volta “il maggior fornitore di gas liquido del continente”.

Se neanche le considerazioni geostrategiche reggono più, perché allora andare avanti? Perché costruire un rigassificatore che economicamente vacilla e rischia di essere pure vantaggioso per la Russia? La BEI e la Commissione europea dovrebbero fare un passo indietro e riconsiderare il loro sostegno a questo e a qualsiasi nuovo progetto di terminali di rigassificazione in Europa.

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