Alla scoperta del paradiso (fiscale) britannico

Londra. Foto Carlo Dojmi di Delupis/Re:Common, 2014.

[di Luca Manes] pubblicato su Altreconomia.it

Cartoline da Londra. Green Street, una fila di palazzi vittoriani dai caratteristici mattoncini rossi nel cuore del quartiere ultra-chic di Mayfair. Trafalgar Square, la fastosa e imponente ex sede dell’Ammiragliato superata la quale si arriva a Buckingham Palace. Montague Place, severi stabili in vetro e cemento della seconda metà del secolo scorso a due passi dal British Museum. Sono solo alcune delle centinaia di strade tra la City e il West End, le aree più ricche della capitale inglese, che hanno in comune un dettaglio non esattamente trascurabile: la proprietà degli stabili fa capo a società registrate nei paradisi fiscali, dall’isola di Jersey alle Isole Vergini Britanniche passando per Lussemburgo. I beneficial owners, ovvero i beneficiari ultimi di queste compagnie “esotiche”, non sono noti.

Spulciando il registro del catasto britannico, la BBC, la testata televisiva pubblica britannica, ha mappato in maniera puntigliosa tutte le proprietà offshore, che ammontano a ben 41mila, oltre un quarto concentrato nella sola City of Westminster, per una somma stimabile in 33,9 miliardi di sterline (oltre 38 miliardi di euro).

Tra i dati di acquisto confermati ci sono quelli che si riferiscono all’iconico ex quartier generale della Metropolitan Police al numero 10 di Broadway, conosciuto da tutti come Scotland Yard. Nel 2014, il Comune di Londra ha venduto il complesso edilizio alla Abu Dhabi Financial Group per 370 milioni di sterline, anche se poi l’effettiva proprietà fa capo alla BL Development, registrata a Jersey. Il palazzo è stato poi demolito per far posto a una serie di appartamenti di extra-lusso, dal costo che va dai 2 ai 10 milioni di sterline.

I governi dei vari possedimenti britannici -come l’isola di Jersey o le Isole Vergini- negano di essere dei paradisi fiscali e sostengono che tali operazioni di “delocalizazione” si compiono solo per “ragioni pratiche” e per “favorire la presenza di una molteplicità di investitori”.  Di tutt’altro avviso è l’organizzazione internazionale “Tax Justice Network”. Lo scorso gennaio ha reso noto il nuovo Financial Secrecy Index, che dal 2009 mette in fila i Paesi meno trasparenti in materia fiscale e finanziaria. Prima in classifica si conferma la Svizzera, seguita dagli Stati Uniti. Ma se il Regno Unito, assieme alle sue dipendenze e possedimenti oltre mare fossero considerati come un’unica entità, si piazzerebbero in cima alla lista. Insieme alle Cayman (terze), infatti, si “distinguono” anche le isole del Canale Jersey e Guernsey, le British Vergin Islands e le Bahamas, oltre alla stessa Gran Bretagna, visto che la City di Londra è da tempo considerata a tutti gli effetti un vero e proprio paradiso fiscale.

Per il suo studio, “Tax Justice Network” utilizza sia il criterio del grado di segretezza del Paese analizzato, sia quello delle dimensioni dei singoli centri finanziari in termini di servizi offerti ai non residenti. L’immagine che esce dal rapporto è senza dubbio più aderente alla realtà rispetto alla lista nera dei paradisi fiscali compilata dall’Unione europea. Quest’ultima, infatti, conta solo 17 Paesi dal momento che otto, tra cui Panama, Grenada e le Barbados, sono stati “depennati”. Molto spoglia (ci rientrano solo Costa Rica, Malesia, Filippine, Uruguay) anche la black list della Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo Economico (OCSE), di cui fanno parte le economie più avanzate del pianeta.

Il “Tax Justice Network” ricorda che nelle giurisdizioni segrete sono nascosti tra i 21.000 e i 32.000 miliardi di dollari e si stima che ogni anno i flussi finanziari illeciti transfrontalieri ammontino a circa 1.500 miliardi di dollari, molto più dei 135 miliardi di dollari destinati agli aiuti allo sviluppo. La mancanza di trasparenza è sinonimo di riciclaggio di denaro sporco, crimini finanziari, corruzione ed evasione fiscale. La mappa delle proprietà oscure al centro di Londra è una fotografia molto eloquente di questa preoccupante deriva che, ipotizzano tanti addetti ai lavori, potrebbe peggiorare ancor di più con la Brexit.

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